di Oleksiy Bondarenko
Gli eventi in Ucraina, e soprattutto nella sua capitale, Kiev, stanno dominando le cronache in tutta Europa da più di tre mesi, contribuendo a raffreddare il clima tra Bruxelles e Washington, da una parte, e Mosca dall’altra. La Conferenza per la Sicurezza di Monaco è stata teatro di un reciproco scambio di accuse tra il Segretario di Stato USA, John Kerry, e il Ministro degli Esteri della Federazione Russa, Sergej Lavrov. Se da una parte il sostegno all’opposizione che ha invaso la piazza negli ultimi due mesi sembra aprioristico e dettato da esigenze strategiche e di immagine (come la rivitalizzazione del soft power europeo ad Est), piuttosto che da una chiara comprensione del “caso ucraino”, dall’altra, Putin sta valutando la situazione con molta cautela, giocandosi la carta degli accordi economici sottoscritti con Kiev sul tramonto dell’Accordo di Associazione tra l’Ucraina e Bruxelles [1]. Mai come ora, in una situazione così complicata in cui il governo negli ultimi giorni ha ballato tra compromesso e repressione, sembra importante comprendere gli obiettivi politici dei manifestanti che sono scesi in piazza e dell’opposizione partitica.
Innanzitutto bisognerebbe fare un passo oltre alla solita retorica che rappresenta la situazione nel Paese come la lotta del movimento democratico oppresso contro un regime autoritario-oligarchico pronto a tutto pur di mantenere avidamente il proprio potere. Per fare questo bisognerebbe, in primo luogo, sforzarsi di comprendere che Viktor Janukovyč rappresenta anche l’eredità della Rivoluzione Arancione (pro-europea e filo-occidentale nei suoi connotati internazionali), che fu incapace di mantenere le promesse gridate in piazza nel 2004, quella stessa piazza che oggi è scena di barricate e morti. L’attuale Presidente è stato eletto in maniera legittima e in seguito ad elezioni che sono state considerate regolari dalla comunità internazionale nel 2010, e non bisogna nemmeno dimenticare che in quella battaglia elettorale prese parte attiva anche Julija Tymošenko, politicamente sconfitta al secondo turno.
In secondo luogo, per riuscire a comprendere gli eventi di Kiev, bisogna analizzare attentamente la situazione politica del Paese e l’effettiva composizione della piazza (Maidan). Sarebbe riduttivo limitarsi a considerazioni che riducano lo scontro a paragoni tra “democratico” contro “autoritario”, “pro-occidentale” contro “pro-russo”, “il giusto” contro “l’ingiusto”. L’Ucraina adesso non rappresenta più niente di tutto questo, non c’è più giusto e ingiusto, e non c’è più una concreta contrapposizione politica che possa stabilizzare definitivamente la situazione. Con questo non si vuole affermare certamente che il governo di Janukovyč non sia corrotto, con chiare sfumature autoritarie e costruito in modo tale da preservare se stesso in una prospettiva lungo temporale. Non si mette in discussione che quello di Julija Tymošenko sia un caso, in un modo o nell’altro, politico, e non si vuole chiudere gli occhi di fronte alla difficile situazione economica in cui si trova ora l’Ucraina, fattore divenuto quasi insostenibile per la popolazione. Proprio considerando tutto questo ci si sorgono spontanee alcune domande: l’opposizione è davvero capace di porre rimedio a questa situazione? Sono davvero legittime le rivendicazioni ed i mezzi utilizzati per raggiungere gli obiettivi politici negli ultimi mesi? La continua radicalizzazione dello scontro non rischia di avere conseguenze a lungo termine sul futuro del Paese?
Il delicato equilibrio politico degli ultimi anni
La composizione dello spettro politico ucraino, in seguito alle recenti elezioni amministrative dell’ottobre 2012 (svoltesi con il nuovo sistema elettorale misto), è divenuto ben più complesso rispetto alla classica contrapposizione degli ultimi anni tra un partito governativo e quello dell’opposizione. Il partito presidenziale, Partiya Reghionov (Partito delle Regioni) ha ottenuto il 30% dei voti, assicurandosi la maggioranza all’interno della Verhovna Rada (Parlamento) con 185 seggi su un totale di 445. Ma se il primato del partito di Janukovyč non appare come una sorpresa, le elezioni del 2012 sono state molto importanti per evidenziare la nuova composizione dell’opposizione, reduce dalla delusione della Rivoluzione Arancione. Il secondo partito nel Parlamento ucraino rimane il blocco guidato una volta da Julija Tymošenko (ora da Arsenij Jacenjuk), Batkivshchyna (Patria), nonostante un calo di consensi rispetto alle precedenti elezioni pari al 5%. La vera sorpresa, però, è rappresentata dalla crescita esponenziale di forze che si collocano all’estremo dello spettro politico del Paese. Un chiaro esempio in questo senso è il 10,45% dei voti (con un aumento rispetto alle precedenti elezioni di oltre il 9%) del partito nazionalista (xenofobo e antisemita) Svoboda (Libertà), così come la rinascita del “vecchio e dimenticato” Partito Comunista Ucraino con il 13,08% dei voti. In mezzo, tra i primi due partiti “istituzionali” e gli estremi in ascesa, si è posizionato il partito, di chiara matrice populista, Udar (Colpo, Pugno ma anche Ukraїns’kyj Demokratyčnyj Al’jans za Reformy – Alleanza Democratica Ucraina per la Riforma) con un totale di 13,96%, guidato da uno dei due fratelli Klichko, Vitaliy, il famoso pugile.
A differenza di tutti gli altri partiti, però, l’unico con una chiara e radicata impostazione ideologica è Svoboda (rappresenta in parte un’eccezione a quest’affermazione il PCU, che, però, ha abbandonato sensibilmente la retorica ideologica, muovendosi piuttosto sul terreno dei concreti problemi della fetta più disagiata della popolazione). Il partito nazionalista ha saputo sfruttare a suo favore il malcontento nei confronti delle compagini di governo, un certo livello di sfiducia nei confronti dell’opposizione e il bisogno di una fascia di popolazione (soprattutto i giovani) di avere una prospettiva ideologica chiara e ben definita. Prendendo in parte a prestito le istanze del nazionalismo ucraino del XIX secolo (rappresentato da autori come Vjaceslav Lypyns’kyj e Dmitro Doncov), Svoboda è stato capace, negli ultimi anni, di trovare radicamento sociale soprattutto nell’Ucraina Occidentale, particolarmente in Galizia e in Volinia, basando il suo consenso sulla promozione della lingua ucraina, sul rifiuto di ogni tipo di legame con la Russia e su vaghi richiami all’antisemitismo storico. Sfruttando anche la figura carismatica del leader Oleh Tyahnybok, il partito nazionalista ucraino è stato l’unico capace di organizzare e catalizzare la rabbia della popolazione più disagiata durante il suo primo anno all’interno del Parlamento, facendo emergere e guadagnare visibilità a tutto il sottobosco di gruppi e organizzazioni di estrema destra, molti delle quali si rifanno alla figura di Stepan Bandera.
Personaggio piuttosto controverso, Bandera è stato il fondatore dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN, padre spirituale della quale è considerato Dmitro Doncov), nonché il fondatore dello Stato Ucraino Indipendente, proclamato a Lviv (città dell’Ucraina Occidentale al confine con la Polonia) nel 1941 in seguito all’invasione nazista. Braccio armato dell’OUN fu l’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), creato per combattere contro l’Unione Sovietica, la Germania Nazista e la Polonia con lo scopo di formare uno Stato ucraino etnicamente e politicamente indipendente. Durante l’avanzata dell’Armata Rossa verso ovest, l’UPA si schierò temporaneamente con l’esercito nazista, adottando la tattica della guerriglia contro il nemico sovietico. L’attività delle forze di Bandera sono state particolarmente significative nella parte orientale dell’attuale Ucraina fino al 1949.
Le diverse attitudini nei confronti della sua figura all’interno della società ucraina post-sovietica, possono essere collocate, a livello simbolico, all’interno di una più grande divisione che contraddistingue il Paese, la cui storia travagliata ha contribuito a creare in pratica “due Ucraine”, con il fiume Dnepr (che attraversa il Paese da nord a sud) che funge da confine immaginario. La parte orientale, dominata per lunghi tratti dal regno lituano-polacco, legata alla Chiesa Uniate (nata dopo l’Unione di Brest che sanciva la sottomissione della Chiesa ortodossa polacco-lituana alla giurisdizione del papato di Roma, pur mantenendo i riti ortodossi e dotandosi di una propria organizzazione ecclesiastica) e più duramente colpita dalle politiche agrarie di Stalin durante gli anni Trenta, rappresenta terreno fertile per le varie forme di nazionalismo ucraino, sia dal punto di vista culturale-linguistico, sia politico. L’est del Paese invece, territorio della Rus’ di Kiev e culla della storia nazionale non solo degli ucraini, ma anche dei russi e dei bielorussi, passato sotto il controllo della Russia in seguito al Trattato di Perejaslav del 1654 (nord est dell’attuale Ucraina) e alle cessioni da parte dell’Impero Ottomano (Crimea e sud-est del Paese), è stato storicamente legato a Mosca e alla Chiesa Ortodossa moscovita, subendo maggiormente la russificazione culturale durante il periodo sovietico e l’industrializzazione promossa dal PCUS. [2]
L’ascesa e la popolarità di Svoboda, hanno avuto l’effetto di sdoganare agli occhi dell’opinione pubblica la parte più estrema dello spettro politico, ma anche di riaccendere quel conflitto latente tra est e ovest che negli ultimi anni è stato tenuto a bada. Dall’altra parte, la mancanza di un’unità d’intenti e di strategie politiche degli altri partiti dell’opposizione ha impedito di contrastare efficacemente il governo di Janukovyč e il Partito delle Regioni all’interno della Verhovna Rada. È pur vero che il compito dell’opposizione è stato reso ancora più difficile dalle riforme costituzionali apportate dal Presidente. La mancata firma degli Accordi di Associazione a novembre 2013 è stato il fattore che ha scoperchiato il vaso di pandora, mettendo in moto un vortice che negli ultimi tre mesi ha risucchiato il Paese ponendolo di fronte a tutte le sue contraddizioni storiche, culturali, politiche e sociali, rischiando di trasformare le manifestazioni di piazza in una vera e propria guerra civile.
Rivoluzione Arancione 2.0?
Iniziato come un moto di protesta quasi spontaneo, che coronava un 2013 già ricco di subbugli politici interni, migliaia di persone hanno invaso il Maidan Nezalezhnosti (letteralmente Piazza d’Indipendenza, la principale e la più grande piazza della capitale) per manifestare il proprio disappunto nei confronti della decisione del Presidente di rigettare la firma degli Accordi di Associazione con l’UE. Le istanze europeiste, però, hanno ben presto lasciato il campo ad una più ampia contestazione contro il malgoverno di Janukovyč (e del suo Partito delle Regioni) e la precaria situazione in cui versa l’economia ucraina.
La facile associazione delle attuali proteste con l’ormai famosa, pacifica e vittoriosa Rivoluzione Arancione del 2004 si sono sprecate, sia nelle piazze di Kiev, sia nelle opinioni di alcuni esperti. In verità le analogie con le proteste del 2004, che in maniera pacifica consegnarono la presidenza del Paese nelle mani del duo Juščenko-Tymošenko, si sono praticamente dissolte dopo le prime settimane di protesta. Le differenze sono evidenti già a occhio nudo, e in maniera simbolica anche da un punto di vista cromatico. Se dieci anni fa Maidan Nezalezhnosti era un “mare arancione”, colorato, pieno di vita e di speranza, oggi la stessa piazza è invasa da fiamme, barricate e rottami di autobus bruciati, dominata dalla rabbia piuttosto che dalla fiducia in un futuro migliore, con un groviglio di simboli e bandiere spesso difficilmente compatibili tra loro. I risultati della Rivoluzione Arancione sono stati scarsi e, sotto alcuni punti di vista, disastrosi: ci si riferisce ad esempio alla guerra del gas con Mosca, che ha avuto il risultato di aumentare in maniera esorbitante il prezzo del gas pagato da Kiev; le tariffe, pur mantenute basse per la popolazione tramite sussidi, hanno avuto un effetto disastroso sia per la compagnia petrolifera nazionale, sia per le casse dello Stato. Questa situazione ha fatto sì che Juščenko, eroe nel 2004, riuscisse a malapena a totalizzare il 5% dei voti alle elezioni presidenziali del 2010, vinte da Janukovyč sulla vecchia alleata (con cui i rapporti erano piuttosto tesi dal 2009) del Presidente uscente.
Ma la vera differenza è stata la capacità dei leader dell’opposizione di prendere in mano e di convogliare la protesta di piazza attraverso istanze politiche. Se Juščenko e la Tymošenko erano riusciti a mettere da parte le loro divergenze in nome di un comune obiettivo politico e furono in grado di sfruttare in questi termini la spontaneità e la genuinità iniziale delle proteste popolari, la troika Klitschko, Jacenjuk e Tyahnybok è apparsa sin dall’inizio troppo eterogenea per poter fungere da cinghia di trasmissione tra la piazza ed i palazzi del potere.
Le bandiere europee sono ben presto scomparse dai luoghi delle manifestazioni, le quali hanno lentamente perso la loro natura spontanea e popolare, lasciando terreno ai gruppi e alle frange più organizzate. La protesta per un’Ucraina più vicina a Bruxelles si è trasformata, in maniera indiretta e confusa, in un groviglio di istanze e rivendicazioni, che i leader dell’opposizione parlamentare non sono stati capaci di interpretare e comprendere facendole proprie. Il punto simbolico di non ritorno è stato l’abbattimento della statua di Lenin agli inizi di dicembre ad opera degli esponenti di Svoboda, statua rimasta in piedi durante i difficili giorni dell’indipendenza nel ’91 e durante la Rivoluzione Arancione. Si potrebbe affermare che proprio dal giorno dell’abbattimento della statua di Lenin la piazza abbia perso la sua “innocenza” e spontaneità, iniziando ad accusare le prime spaccature interne e concedendo alle frange più estreme la possibilità di conquistare lentamente la ribalta, organizzarsi e quasi sostituirsi, in alcuni frangenti, ai leader dei partiti di opposizione parlamentare. La crescita e la comparsa di questi gruppi ha sicuramente radici più profonde nella società ucraina, parallela alla diffusione delle istanze più radicali rappresentate da Svoboda e dal “bisogno” sempre crescente della popolazione di superare l’estremo centrismo-populismo della vita politica.
Praviy Sektor – l’estremismo che è riuscito a determinare l’agenda della protesta
Affermare che la protesta sia composta prevalentemente dalle frange più estreme è sicuramente riduttivo e non corretto. Non corretto nei confronti delle migliaia di persone che hanno attivamente partecipato alla mobilitazione degli ultimi tre mesi, caratterizzata da meeting, incontri, concerti e marce assolutamente pacifiche. Riduttivo, se si vuole proporre un’analisi più completa volta a identificare le diverse sfaccettature di Maidan Nezalezhnosti, le problematiche che il paese deve affrontare da un punto di vista socio-politico ed economico e le fragili basi del national building degli ultimi vent’anni.
Da un punto di vista politico, però, è innegabile come l’agenda della protesta e dell’opposizione partitica sia stata influenzata e, in alcune circostanze determinata, dalle organizzazioni più estremiste e dalla loro capacità di rispondere in maniera concreta, tramite un uso cosciente della violenza, sia ai tentativi negoziali, sia alle provocazioni del governo.
Praviy Sektor (Right Sektor) è ormai abbastanza conosciuta come l’organizzazione che ha condotto i principali scontri di piazza con la polizia antisommossa (Berkut) che hanno caratterizzato ed estremizzato l’ultimo mese. Cosa rappresenta e quali sono le rivendicazioni di questo gruppo auto-organizzato in funzione delle proteste è però una domanda alla quale appare più difficile rispondere. Se i primi scontri violenti sono stati sostenuti da numerosi manifestanti esasperati da oltre un mese di proteste senza alcun risultato politico, ben presto la violenza è diventata più organizzata, coordinata e volta a promuovere coscientemente alcune istanze politiche.
Praviy Sektor è un’organizzazione nata dopo lo scoppio delle proteste di fine novembre, che ha offerto un mantello e un coordinamento unico alle diverse correnti di estrema destra scese in piazza. Ufficialmente non risponde a nessun partito politico, anche se comprende al proprio interno un gruppo strettamente legato (anche se non ufficialmente) a Svoboda, “Patriot Ukrainy” (Il patriota ucraino). Le altre principali organizzazioni confluite all’interno di questo contenitore sono attive in Ucraina dall’inizio degli anni Novanta, come “Ukrainskaya Nazionalnaya Assambleya – Ukrainskaya Narodnaya Samooborona” (Assemblea Nazionale Ucraina – Auto-difesa Nazionale Ucraina), composta attualmente da numerosi reduci della guerra georgiano-abkhaza. Un’altra importante componente di Praviy Sektor è l’organizzazione “Trizub” (Tridente), “braccio armato” del Congresso Ucraino dei Nazionalisti erede dell’OUN di Stepan Bandera. La figura di spicco di quest’organizzazione è Dmitri Yarosh, uno dei volti principali delle violenze di Maidan Nezalezhnosti [3]. Secondo le parole dello stesso Yarosh in un’intervista per il quotidiano on-line, Ukrainska Pravda, gli obiettivi principali di Trizub sono tre: “la propaganda dell’ideologia del nazionalismo ucraino secondo l’interpretazione di Stepan Bandera, l’educazione della gioventù ucraina secondo i principi del patriottismo e la difesa della nazione ucraina” [4].
A fianco a Praviy Sektor sono attivi anche altri gruppi di matrice nazionalista e di estrema destra, come “Obsceye Delo” (Causa Comune) il cui leader, è diventato piuttosto famoso dopo la fuga a Londra di qualche settimana fa perché ricercato dalla polizia in patria, o come il gruppo dei reduci della guerra sovietica in Afghanistan. In un’intervista concessa a Oksana Grytsenko pubblicata su The Guardian il 23 gennaio scorso, Andriy Tarasenko, uno dei membri di Praviy Sector, che si definisce come gruppo senza una struttura gerarchica, spiega gli obiettivi politici dell’organizzazione. L’obiettivo ultimo del gruppo, secondo Tarasenko, è la “rivoluzione nazionale” il cui risultato dovrà essere quello della formazione di una “democrazia nazionale”, slegata dai principi del “liberalismo totalitario” rappresentato dall’UE. Il primo step di questa “rivoluzione” dovrebbero essere le dimissioni del Presidente Viktor Janukovyč. L’Europa non rappresenta quindi un obiettivo per le numerose organizzazioni che sono confluite all’interno di Praviy Sector; l’Europa, anzi, è “la morte dello Stato nazionale e della Cristianità”, mentre il Paese dovrebbe essere il posto “per gli ucraini, guidato da ucraini e non sottoposta agli interessi di altri”. I cosiddetti “altri” non sono solo rappresentati dall’Europa, ma anche dalla Russia, considerata il principale nemico dell’affermazione nazionale del popolo ucraino. [5].
Sebbene sia piuttosto difficile definire il numero esatto dei membri radicali di Praviy Sektor, si potrebbe affermare con oggettività che i simpatizzanti ed i sostenitori di quest’organizzazione sono cresciuti esponenzialmente nell’ultimo mese. Il gruppo creato all’interno di VKontakte (il social network considerato il Facebook russo e più generalmente dell’Europa dell’Est) ad esempio, ha sommato nell’ultimo periodo più di 100.000 contatti, mentre il sostegno alle azioni dell’organizzazione sembra essere cresciuto anche nelle fasce meno estreme della protesta. La legittimità che il gruppo si è riuscito a guadagnare come “braccio armato” di Maidan Nezalezhnosti è evidenziata anche da un altro fattore. All’interno di uno dei palazzi governativi occupati a dicembre, dove tutte le forze dell’opposizione hanno costituito i propri “quartieri generali” per coordinare politicamente le manifestazioni, un intero piano (il quinto) è stato occupato da Praviy Sektor, che ha formato li, a fianco a Udar, Batkivshchyna e Svoboda, la propria base di coordinamento [6].
Ma al di là dell’effettivo numero di componenti e del sostegno a questo gruppo auto-organizzato, è importante sottolineare il ruolo politico che Praviy Sektor ha giocato durante gli ultimi periodi e soprattutto negli ultimi giorni, caratterizzati dai più violenti scontri con la polizia. Già all’inizio di febbraio, infatti, Dmitro Yarosh ha avuto un ruolo molto importante nei negoziati con il governo che avevano definito l’amnistia per i manifestanti detenuti dalla polizia in cambio di una parziale smobilitazione delle barricate e dell’abbandono di alcuni palazzi governativi occupati durante l’ultimo mese di protesta.
Pur sfuggendo lentamente di mano all’opposizione partitica (che si è sempre schierata contro le violenze) e ponendosi come “terza parte negoziale”, Praviy Sektor e gli scontri con la polizia sono, però, serviti a “rivitalizzare” la protesta e a mettere sotto ulteriore pressione il presidente Janukovyč. Quando Udar, Batkivshchyna e Svoboda sono tornati con una “semplice” tregua dopo gli ultimi incontri con il governo, le frange più estreme hanno (ri)preso definitivamente in mano la situazione. I morti degli ultimi giorni, dovuti alla spropositata e criminale reazione dei Berkut (o meglio del potere), ma anche alla cosciente organizzazione e militarizzazione di una fetta della piazza (da questo punto di vista non mancano le oggettive immagini che documentano il pesante armamento, all’apparenza quasi paramilitare, della piazza), hanno intensificato ulteriormente le pressioni della comunità internazionale ed indebolito, definitivamente, la posizione del Presidente.
Un accordo che non risolve la situazione
Il compromesso, apparentemente risolutivo, raggiunto nella notte tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio con la partecipazione di alcuni rappresentanti dell’Unione Europea e della Russia, ha dato una nuova prospettiva alla protesta. I sei punti principali dell’accordo tra le parti rappresentano un chiaro passo indietro da parte del Presidente, costretto ad accettare il ritorno alla Costituzione del 2004 (che equipara i poteri del Presidente, del Governo e del Parlamento) e le elezioni anticipate (che secondo il testo dell’accordo si sarebbero dovute tenere dopo l’iter istituzionale che apporterà delle modifiche alla Costituzione). I motivi di tale compromesso vanno ricercati nel lento sgretolamento che il Partito delle Regioni ha subito negli ultimi giorni, che ha visto la formazione di una fazione d’opposizione all’interno del partito e in alcuni comportamenti “ambigui” dei rappresentanti della polizia e delle forze armate ucraine [7].
Quello che è successo dopo è storia recente. L’allontanamento del Presidente dalla capitale, la nomina del nuovo speaker della Verhovna Rada (Aleksandr Turchinov, fedele alleato della Tymošenko) che ha assunto, ad interim, il ruolo di Presidente, la risoluzione del Parlamento sul ritorno alla Costituzione del 2004 (risoluzione del Parlamento che non richiede la firma del Presidente, a differenza di una legge, e che ha, quindi, l’effetto di esautorare Janukovyč), il rilascio di Julija Tymošenko e la decisione di indire nuove elezioni presidenziali per il 25 maggio a causa dell’allontanamento ingiustificato di Janukovyč. Tutti fattori che avranno serie conseguenze sui futuri equilibri di forza tra le varie componenti politiche.
Quello che però negli ultimi giorni passa in secondo piano è la situazione che Janukovyč, l’opposizione ed i tre mesi di manifestazioni lasciano nel Paese. Nonostante il compimento del principale desiderio di Maidan Nezalezhnosti, ossia l’allontanamento del Presidente, il Paese che esce da tre mesi di scontri e proteste è un Paese estremamente polarizzato, diviso e sempre sull’orlo della ricaduta in una contrapposizione radicale. Proprio al tramonto della firma del compromesso, ad esempio, i deputati delle regioni orientali del Paese e della Crimea si sono riuniti a Kharkiv “assumendosi la responsabilità di garantire l’ordine costituzionale, la legalità e la salvaguardia dei cittadini nelle loro regioni” fino al ristabilimento del “ordinario funzionamento” del Parlamento. Nella dichiarazione finale stilata a Kharkiv si legge anche che “l’opposizione non ha rispettato gli accordi firmati sulla regolamentazione della crisi” e che le “decisioni prese dalla Verhovna Rada negli ultimi giorni richiamano dubbi sulla sua legittimità” [8]. Tra queste decisioni non c’è solo la deposizione del Presidente, ma anche l’abrogazione della “legge sulla politica linguistica”. Questa legge, in vigore dall’agosto del 2012, garantiva la “possibilità di un ufficiale bilinguismo nelle regioni dove la minoranza linguistica superava il 10%”. Il russo, ad esempio, aveva lo status di lingua ufficiale (al pari con l’ucraino) in ben 13 delle 27 unità amministrative del Paese. Questa frettolosa decisione è stato il primo tributo da pagare a Svoboda e alle correnti nazionaliste, infuocando la tensione nel Paese.
Con le immagini di Julija Tymošenko di nuovo a Maidan Nezalezhnosti la piazza sembra aver raggiunto il proprio scopo, ma il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto. Gli eventi degli ultimi mesi e le conclusioni degli ultimi giorni restituiscono un Paese ancora più polarizzato con l’ombra di un attore politico in più. Non si tratta tanto di Praviy Sektor e dei vari gruppi di estrema destra, ma di un partito che, in un modo o nell’altro, rappresenta esclusivamente una parte della popolazione e che non guarda verso il richiamo europeo come un fine, ma bensì come mezzo che ha permesso loro di assumere un’importanza politica determinante. I prossimi giorni saranno anche un’importante banco di prova per Batkivshchyna e Udar e per la loro capacità di tenere insieme le diverse anime di Maidan Nezalezhnosti. Il primo compito sarà quello di creare una nuova maggioranza e un governo. Già dall’ingresso nella nuova coalizione di almeno una frazione del Partito delle Regioni – che si sta sgretolando – potrebbe dipendere non solo il rispetto del compromesso raggiunto con il potere, ma anche la futura unità del Paese. Il nuovo governo dovrà far fronte alla netta spaccatura dell’Ucraina, alla sempre più difficile situazione economica (che fine faranno i prestiti promessi da Mosca?) e all’inevitabile resa dei conti finale, sia tra le componenti che hanno avuto una chiara responsabilità nella degenerazione della situazione degli ultimi giorni sia tra la cricca oligarchica di Janukovyč ed i suoi rivali.
“Janukovyč è ormai storia” ha dichiarato il sindaco di Kharkiv Gennadiy Kernes. Un altro finale incerto da aggiungere ai capitoli della travagliata storia del Paese.
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