Magazine Diario personale

Un anno vissuto disoccupatamente

Da Giovanecarinaedisoccupata @NonnaSo

compleanno_torta

È quasi venuto il momento, anche per questo blog, di compiere il suo primo anno.

Si, un anno è passato ormai, un anno vissuto pericolosamente, sempre sull’orlo della catastrofe o della crisi, un anno vissuto disoccuptamente.

Beh, in realtà sono disoccupata da ben più di un anno (ma ci ho messo un po’ per trovare il ccoraggio di aprire questo blog, e di scrollarmi di dosso il senso di colpa – per colpe non mie!- e la fastidiosissima e inutile tendenza al vittimismo -così non mia che dovevo per forza abbandonarla da subito!-), ma se ve lo devo proprio dire, ormai ci ho un po’ fatto l’abitudine. Come ad indossare un vestito vecchio, che alla fine anche se non ci piace, non avendo alternative diventa il nostro “preferito”. E diventa pure comodo.

Nella disoccupazione non c’è proprio nulla di comodo, non fraintendetemi, anzi il contrario proprio. Però c’è abitudine, quello si.

L’abitudine è alla base di tutto. Se non fossimo esseri abitudinari, o in grado di abituarsi a tutto, non saremmo sopravvissuti così tanto su questa terra. È una legge naturale.

E così, anche se abbiamo pianto, strepitato, e ci siamo fatti venire le crisi di nervi e le bolle e la scabbia, alla fine ci siamo abituati anche, a questa disoccupazione. Ad alzarci quando vogliamo la mattina senza la fretta e l’urgenza di dover andare da qualche parte, a metterci in coda per farci pubblicamente vilipendere ogni volta che dobbiamo avere a che fare con qualche “servizio al cittadino” o “sportello pubblico” (diamine, ormai ci mettono i piedi in testa persino le vecchie acide che incontriamo alla cassa del supermercato, tanto che ci siamo inteneriti e sintonizzati su quell’altra “frequenza” di vita – quella tranquilla, quella del “tanto non ho altro da fare”- !).

Eh si, ci siamo abituati a tante, tante cose, in questi mesi, in questi anni: a sentirci sbattere in faccia statistiche che per noi non hanno più senso (ma l’hanno mai avuto?), a sentirci prendere per il culo da questa politica e da questo governo, a chinare il capo difronte all’ennesima tassa uscita dal cilindro (molto creativo, lui!) delle autorità che ci controllano, a non vederci rispondere alle mail di invio curriculum o alle telefonate di sollecito, a non andare nemmeno più a cercare sulle varie piattaforme per il recruiting (tanto ci sono solo annunci fasulli e noi ormai li sappiamo riconoscere, così come sappiamo riconoscere le “magnifiche opportunità” di prestare la nostra opera a titolo ESCLUSIVAMENTE gratuito), a vedercene succedere una dietro l’altra senza mai vedere la fine in fondo al tunnel.

Abbiamo anche imparato però tante cose: a distinguere la gente, così come i panni sporchi da lavare, e a separare i bianchi dai colorati (pericolosi e infidi: se finiscono in lavatrice il guaio è assicurato, e noi non vogliamo che il bucato della nostra vita esca multicolor senza senso, o di un grigio slavato che non sa di nulla, no??). Abbiamo imparato che gli amici sono amici fino a che possono cavare sangue da questa rapa, e poi sono solo estranei che hanno sempre qualcos’altro da fare quando li chiami. Abbiamo imparato che non si accettano lavori dagli sconosciuti fino a che non hanno versato il primo acconto del dovuto per la prestazione d’opera e che le “fantastiche opportunità” non accadono nemmeno nel paese dei Balocchi (Pinocchio e l’amico ne sanno qualcosa).

Abbiamo anche imparato, dolorosamente, quanto valiamo: agli occhi del mondo, di questa Italia con il suo mercato del lavoro ormai cadavere putrescente su cui proliferano solo gli insetti necrofagi (bella questa, devo andare a dare dell’insetto necrofago ai miei ex colleghi: dubito che mi capiranno, ma almeno io sarò fiera di non avere dimenticato come portare il dovuto rancore e chiamare le cose con il loro nome), ma soprattutto, abbiamo imparato quanto valiamo per noi stessi.

Si perché se ci guardiamo attorno non c’è rimasto nessun altro a “sopportarci”, sostenerci, ascoltarci, darci una possibilità (o quasi, io sono abbastanza fortunata da avere la mia famiglia, e almeno 1 amico, vicino, che non si è lasciato “spaventare” dalla mia disoccupazione, e lo tengo caro al mio cuore come fosse oro zecchino): se ne sono andati tutti, a correre dietro alle loro vite (giustamente), a tenerseli ben stretti i loro privilegi, a voltarsi dall’altra parte per non sentire la puzza di concime nel loro bel roseto coltivato.

E tuttavia, sapete cosa vi dico? Che non solo mi sono abituata a questa “cosa” (o condizione, o stato, o come diavolo volete chiamarlo), ma mi ci sono anche sistemata ben bene e ora, a guardare le cose in faccia e chiamarle con il loro nome, non posso fare altro che riconoscere che in fondo (tolti gli abissi di sconforto e le difficoltà materiali, le notti di terrore insonne etc.) questa è stata la cosa migliore che potesse capitarmi.

Perché non guardo all’incidente che mi ha lasciata in “coma” per un anno (o per gli 8 precedenti di “lavoro”), ma a quanto è stato bello svegliarsi dopo. Trovare accanto a me solo persone che ci tengono veramente, e con cui vorrò condividere il resto della vita senza recriminazioni, fregature, approfittamenti. Guardarmi dentro e fuori, avere l’opportunità di reinventarmi, perdere tutto ciò che avevo e consideravo importante e scoprire che le cose importanti sono altre.

Reinventarmi, si. È esattamente quello che ho cominciato a fare da che sono rimasta “col culo a terra”, e non avevo altro da inventare se non me stessa. Un nuovo lavoro, una nuova vita.

Le istituzioni lo chiamano “riqualificarsi”, ma secondo me sbagliano alla grande. Non è questione di qualifiche, nessuno ci può insegnare più di quello che già sappiamo, o cose che non vogliamo sapere, e siamo noi i primi maestri di noi stessi. Non è una cosa che viene da fuori, un input che ti danno, una sistematina al carburatore o una stretta a quella vite li e tac d’improvviso torniamo funzionanti e pronti. È una cosa che ti deve nascere dentro, una cosa che ti cambia anche se non vuoi,

E per me a conti fatti è stato come rinascere (dolori del parto, tentativo di strangolamento col cordone ombelicale e tutto il resto) e ora sono una bambina, lo posso dire? Una bambina felice.


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