Riporto un interessante articolo di Guido Caldiron uscito su Liberazione a proposito della difficoltà di manifestare pacificamente e politicamente quando entra in gioco la questione del Medio Oriente e il conflitto Israele – Palestina. La riflessione che porta avanti è molto interessante, perchè a parte qualche mosca bianca (compreso il sottoscritto) a sinistra si è sempre rifutato un ragionamento come quello che segue e invece inizia a farsi largo il dubbio che farsi “scippare” da gruppi che con la sinistra non hanno niente a che fare indica che 1) si ha occhi peer capire che certi slogan e riti non sono di sinistra; 2) che la difficoltà impone una riflessione sull’impotenza dei gruppi e delle manifestazioni.
Il primo punto personalmente rimanda ad una “tara” che la sinistra italiana fatica a liberarsi, nonostante oggi non conti più niente e potrebbe quindi con meno responsabilità pubbliche liberarsi: la tara è la tradizione comunista non averci mai fatto i conti in modo netto. In altri paesi i movimenti riescono ad essere anche più radicali perchè non conoscendo questa pesante tradizione hanno più leggerezza ed elasticità nell’esprimere un dissenso.
Il secondo punto è il nodo irrisolto che la sinistra “nuova” non recide da almeno 30 anni: ed è quello con il gusto della violenza e della sua rappresentazione: un goco delle parti che serve solo per reiterare e rinsaldare antichi legami quasi mitici. E la parte che però credo interessante è la seguente: come può essere credibile un movimento pacifista che si propone ogni volta di fermare un conflitto ttra eserciti, nazioni, potenze se poi non riesce neanche a fermare in modo efficace e nonviolento pochi (dicono sempre così, che sono pochi) facinorosi e violenti? Se non riesce a farlo in modo pacifico provi in altro modo e se non ci prova come pensare che l’opinione pubblica lo segua se non riesce a farlo per 4 scazzottate e due inni martiriologici?
Comunque l’articolo è il seguente:
Circolo vizioso di integralismi. Il pacifismo può romperlo
Anche in Italia rilanciare parole d’ordine di pace contro l’embargo e la guerra
Quanto è accaduto nei giorni scorsi su una delle navi internazionali che cercavano di forzare il blocco imposto da Israele alla popolazione di Gaza è orrore allo stato puro, indegno di una democrazia, sebbene sottoposta a una deriva militarista e guidata da forze politiche di estrema destra. Non ci sono parole sufficienti per segnalare la gravità di quelle morti, né per ribadire come l’embargo a Gaza colpisca in realtà quel milione e mezzo di cittadini palestinesi che vivono tra mille stenti nella Striscia e non il movimento fondamentalista di Hamas, come si sostiene da parte israeliana per mantenerlo. Ma l’ulteriore e grave peggioramento della situazione in Medio Oriente non ci può impedire di riflettere su cosa stia avvenendo da tempo in Europa e in particolare nel nostro paese.
Chi abbia partecipato negli ultimi anni a una qualunque manifestazione a sostegno dei diritti dei palestinesi si sarà facilmente reso conto di come le “piazze della pace” siano cambiate lasciando troppo spesso spazio a tante, pericolose, voci di guerra. Che nelle mobilitazioni per la Palestina sia ormai più facile sentir pronunciare “Allahu Akbar” che non parole, magari dure, ma che parlano di “politica”, è sotto gli occhi di tutti. Che figure che poco hanno a che fare con la storia della sinistra e delle forze democratiche – come chi sostiene il “diritto alla ricerca storica” dei negazionisti alla Faurisson o firma interventi sui siti antisemiti – possano essere considerate parte del “popolo della pace”, è storia di questi giorni. Che la stella di David possa essere accumunata alla svastica per denunciare la deriva di Israele appartiene allo stesso repertorio, più volte esibito nelle nostre città.
Si tratta di fenomeni o figure isolate, di eccezioni che confermano la regola di una situazione altrimenti sotto controllo? Potrebbe darsi, se non si fosse contemporaneamente assistito ad un altro fenomeno, anch’esso evidente a tutti. Quelle piazze che si andavano riempiendo di slogan truculenti e di mortifere invocazioni religiose – come altro definire l’elogio del martirio, raccontato venerdì da “Liberazione”? -, si sono infatti progressivamente” vuotate dei pacifisti. Il popolo della pace non esiste più? O più semplicemente in tante e in tanti si sono stufati, spaventati, irritati di veder trasformare le loro battaglie in difesa dei diritti, per la libertà e contro la guerra – in Palestina, ma non soltanto lì – in una sorta di tragico scimmiottamento del conflitto, della sua lingua, dei suoi simboli?
Il punto dell’intera faccenda, crediamo, stia lì: vale a dire nell’aver progressivamente importato, insieme alla denuncia dei suoi esiti, in particolare sulle popolazioni civili, l’idea stessa della guerra. Mettendo in scena nelle nostre città, noi che siamo qui al caldo, ben protetti dai colpi e dalle conseguenze dirette di un conflitto armato, di un’occupazione militare o di un embargo, una nostra piccola guerra simbolica, tanto più feroce e brutale perché inutile, fatta solo per affermare noi stessi – quante battaglie politiche per l’“egemonia” nella cosiddetta estrema sinistra si sono combattute in questi anni sulla pelle della causa palestinese?
Il problema è che la guerra è la condizione che già caratterizza “le relazioni”, se così si può dire, tra israeliani e palestinesi. Il compito di chi sostiene le ragioni degli uni o degli altri, non può perciò essere quello di fare da grancassa al vocabolario dell’odio, della violenza o della stessa guerra. Tanto per essere chiari non è solo sbagliato, è anche inutile. Non aiuta a costruire dialogo, confronto, a far mettere gli avversari intorno a un tavolo anche solo per potersi parlare. E questo è un problema che investe anche l’altro fronte di questa contrapposizione, vista la deriva “comunitarista” che attraversa ampi settori delle comunità ebraiche europee messe sempre più in crisi nella loro identità e nella loro articolazione dallo schiacciamento su Israele “senza se e senza ma”, schiacciamento che ha prodotto anche l’abbraccio contro natura con le nuove destre, già antisemite e razziste e oggi proisraeliane come indica la parabola dell’Msi-An-Pdl.
Ciò a cui si assiste da ormai troppo tempo è invece la replica senza fine dell’immaginario della guerra e delle sue parole d’ordine. Solo per fare un esempio negli ultimi giorni, a Roma, giovani pro-Israele e giovani pro-Palestina si sono accusati reciprocamente di “antisemitismo” e di “fascismo” dimenticando come nella memoria comune della sinistra e della comunità ebraica più antica d’Europa dovrebbero esserci allo stesso modo il 25 aprile, la liberazione dal nazifascismo, e il 16 ottobre, la deportazione degli ebrei romani verso i campi della morte.
Certo la drammaticità della situazione mediorientale non aiuta. L’ascesa della destra radicale e delle forze religiose in Israele sta cambiando le carte in tavola, finendo per mettere a confronto molto spesso “due destre”, come altro definire del resto Hamas e i suoi alleati nella regione? Ma è proprio l’incancrenirsi della realtà sul terreno che chiede a noi uno scarto ulteriore. Rimandare ancora una riflessione su quanto è avvenuto in questi anni, sulla crisi del pacifismo e sulla contemporanea deriva di parte del “movimento di solidarietà con la Palestina” non potrà certo aiutare a rendere più incisive e efficaci campagne e mobilitazioni.
Aprire un confronto su questi temi, può essere il primo passo.
Guido Caldiron LIBERAZIONE in data:07/06/2010