Magazine Diario personale

Un senso

Da Silvia
Un senso Era da più di un mese che non mi sedevo davanti al mio pc aperto, la pagina bianca, pronta per essere macchiata dai miei pensieri. Vorrei potervi dire che il motivo è stato un lunghissimo viaggio in Lapponia, dove io e la mia famiglia abbiamo trascorso un Natale commovente e strepitoso, ma ahimè non è andata proprio così. Sono stata e sto ancora male. Bello il concetto di malessere, rende così bene l'idea, male in essere, essere malamente, non sentirsi bene, sgretolarsi pezzo pezzo, e mentre ti chini a raccoglierne un pò, ti cadono tutti gli altri. Ho avuto lunghi giorni di ricovero lontano dai bambini, ho resistito a denti stretti e con il pigiama sotto al maglione, fino alle recite di Natale dei miei nani, poi sono crollata al pronto soccorso, su una barellina piccola ed instabile e mi sono lasciata portare. Non sarei potuta mancare alle loro recite, ero paralizzata e congelata, l'emozione che mi arrivava dalle loro voci era potente ma offuscata, quasi lontana, un'onda fortissima ma ingestibile per me. Nelle notti insonni in ospedale, le loro canzoncine natalizie mi ridondavano in testa senza tregua. Siamo ancora alla ricerca della diagnosi esatta, ho mille cose che non vanno ed in sostanza non funziono. Vorrei solo ripercorrere, per buttarli fuori, certe sensazioni e certi momenti vissuti in questi giorni di ricoveri ed indagini, perchè mi sono chiesta per molto tempo che senso abbia tutto questo, non riferendomi a me, ma all'Uomo, all'esistenza in genere. Che senso ha massacrare un corpo, lasciare che qualcuno subisca interventi su interventi, torture di carne e spirito, attendere sentenze, insistere su un fisico debilitato, schiacciato, aprirlo, prelevarlo, analizzarlo, scandargliarlo, deviarlo, ricollegarlo? Odio la posizione che si assume quando si sta male, odio quello stare sdraiata, chi sta bene sta in piedi, è in posizione eretta, e può guardare tutto e tutti, chi sta male è come se avesse una mano che gli preme la testa tenendogliela giù, da giù hai una visuale ridottissima, puoi guardare solo piccolissimi particolari insignificanti, puoi fare pochissime cose come leggere mille volte la marca dei lenzuoli dell'ospedale, o quella cosa strana che è scritta intorno all'anello delle bombole di ossigeno, od osservare le bolle della flebo che si rincorrono nel flacone rovesciato e capire che non fanno mai lo stesso percorso. Chi sta male sta giù, a cuccia, il tempo gli scorre ai lati, chi sta male non fa parte della marea che si sposta, cammina, parcheggia, lavora, si trucca, và a cena fuori. Chi sta male resta ai bordi della vita ed aspetta di rientrarci al prossimo giro, magari a quello dopo ancora. Ho visto le mani di una donna anziana con tutte le costole rotte, che nel sonno denso degli antidolorifici, cucivano sciarpe e tessevano tovaglie, i medesimi gesti che ha compiuto per tutta una vita e che si trascinava anche dentro al dolore. Ho visto compagne di stanze morire, strozzandosi dentro all'ultimo respiro, ho visto le facce atterrite e sperse dei suoi cari, ho sentito le urla di una moglie che supplicava i dottori di "risvegliare" suo marito perchè doveva ancora dirgli delle cose che non gli aveva detto, che non poteva essere morto così, che nessuno l'aveva avvertita, e vi prego svegliatelo solo un attimo ancora. Sono rimasta agghiacciata dai corpi che si consumavano giorno dopo giorno, dalle foto dei propri figli sui comodini, da una madre che dormiva aggrappata alla maglietta del suo bambino che non vedeva da un mese. Ho camminato per i corridoi di notte verso un bagno vecchio e sporco, ed ho intravisto le luci di Roma e l'inverno limpido ed immobile fuori, ho controllato la febbre della vicina di letto che la mattina mi aveva raccontato tutto del suo matrimonio, del viaggio di nozze a Savona, del pizzo del suo vestito da sposa, e poche ore dopo non parlava più, aveva gli occhi indietro e l'uomo che l'aveva portata a Savona, improvvisamente non aveva più senso per lei, cancellato, mentre lui cercava di tenerle ancora la mano, come in quarant'anni di vita insieme. Mi sono chiesta dove fosse il senso e forse l'ho trovato nelle scatoline che i mariti o le madri portano ai loro cari ammalati, dentro c'è il cibo più buono, il piatto preferito, il gusto più gradito. L'ho trovato in quelle mani che accarezzano e nelle voci sussurrate dentro all'orecchio:"resisti che ce la fai, forza amore mio", l'ho trovato nel filo che lega il malato a quelli che aspettano il loro ritorno, l'ho trovato in una figlia che lavava i denti alla propria madre, le metteva una crema profumata, la pettinava anche se sapeva perfettamente che non sarebbe mai più scesa da quel letto, l'ho trovato in quel balzo di sopravvivenza, in quelle bocche che cercano l'aria nonostante tutto, in quel disperato istinto alla vita che conserviamo dentro da subito, come di animale, di belva ferita che tenta un ultimo attacco anche se ne è rimasto solo un accenno. Il senso sta nelle voci dei bambini che sentivo tutti i giorni e mi chiedevano:"ti stanno facendo male mamma?quando torni sarai guarita vero?", in una battuta fatta con gli infermieri nonostante le loro giornate allucinanti, trascorse a correre fra una vita e l'altra, il senso sta nel fatto che li ho visti commuoversi e preoccuparsi per noi sinceramente e poi riprendere a lavorare a testa bassa, senza fermarsi troppo a lungo. Il senso sta in quella lavagna di vetro sui quali erano scritti a pennarello i nostri nomi, nel batuffolo di ovatta che ne cancellava qualcuno, mano a mano che i giorni passavano, sfiorando il tuo, sopra o sotto, la morte ti passava accanto con un colpo leggero di cotone imbevuto d'alcool e per un attimo hai pensato che forse non farà poi così tanto male quando arriverà. Il senso sta nell'amore. Voglio guarire. Buon 2013 ai miei lettori, trascurati proprio nel periodo in cui di solito, li coccolo di più.

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