di Matteo Zola
C’è una Europa che riscopre la capacità di rivendicare diritti, occupando la piazza. Dalla Madrid di Puerta del Sol, alla Atene di piazza Syntagna, fino alla Istanbul di piazza Taksim e – adesso - piazza Indipendenza a Kiev. E’ un fenomeno che riguarda tanto la parte occidentale d’Europa che quella orientale ma qui assume un significato ulteriore. La piazza era in epoca comunista il luogo dell’adesione obbligatoria, del consenso al regime. Con la fine delle dittature la piazza è stata disertata e, presto esauriti gli entusiasmi per un rapido sviluppo economico e sociale, i cittadini sono caduti preda di una inerte disillusione. Oggi, da Sofia a Bucarest, da Tirana a Kiev, l’oriente europeo torna in piazza ma questa volta lo fa spontaneamente, rivendicando diritti e dignità.
Considerando solo gli eventi principali, cioè le grandi manifestazioni di massa (a volte duramente represse, con morti e feriti), dal gennaio 2011 ad oggi non sono passati tre mesi senza che una piazza europea esplodesse. La prima è stata Lisbona, preda della crisi e strozzata dalle misure di austerità. Poi Madrid, e tutto il mondo ha visto cosa accadeva a Puerta del Sol, subito seguita da Barcellona dove i manifestanti mandavano all’ospedale i politici del parlamento locale. Pochi mesi dopo – a telecamere spente – è andata in scena la protesta di Bucarest, durata mesi, che ha innescato una crisi politica da cui il paese ancora fatica ad uscire e che si è alimentata (a sua volta alimentando) altri focolai di protesta romeni, come quello di Rosia Montana o contro la Chevron. Intanto a Tirana la Guardia Repubblicana sparava sui manifestanti che circondavano il parlamento e a Sofia la gente protestava contro un governo mafioso e corrotto. A Sarajevo la “bebolucja” superava le divisioni nazionali per manifestare contro un sistema politico che rende la Bosnia Erzegovina ingovernabile. In mezzo c’è stata piazza Taksim, a Istanbul, e piazza Syntagma ad Atene. E adesso c’è Kiev.
Proteste che sono germinazioni indipendenti, che hanno diverse e peculiari origini, che non hanno un coordinamento comune ma che vanno lette insieme: una grande protesta europea che da tre anni scuote l’Europa, talvolta nel colpevole silenzio dei media. Un silenzio che non serve, però, a far tacere il malcontento che puntualmente si ripropone. Queste proteste, da Lisbona a Kiev, sono il negativo della crisi (economica, finanziaria, debitoria) dell’Europa. Una crisi che erode diritti, che si traduce in draconiane misure di austerità, che impoverisce sempre più persone. Una crisi che mostra l’inadeguatezza della classe politica europea, da Passos Coelho a Janukovich. Una crisi che segna il distacco (anche pericoloso) tra cittadini e politica: in queste manifestazioni l’equidistanza dai partiti è stata, ovunque, la cifra della protesta. Non solo: oltre a non avere un colore politico spesso queste proteste si incrociano con l’ambientalismo – il parco Gezi a Istanbul, parco Picin a Banja Luka, la miniera di Rosia Montana in Romania, lo smaltimento delle armi chimiche siriane in Albania – che è un altro degli elementi comuni del malcontento.
Questa grandi manifestazioni hanno riguardato, fin qui, solo l’Europa meridionale: segno che scollamento tra nord e sud del continente, prodotto di una politica economica e monetaria non eque, è sempre più profondo. C’è chi, secondo noi fallacemente, mette in relazione le proteste della parte nord del Mediterraneo con quelle della sponda sud ma le cosiddette “primavere arabe” hanno poco a che fare con il malessere europeo: lì c’erano dei regimi da abbattere, qui c’è un modello economico e sociale in crisi. L’Europa è oggi incommensurabile rispetto al Nordafrica, il Mediterraneo è una linea di cesura da secoli e lo sviluppo della peculiarità europea (rispetto all’antichità latina) sta proprio nella perdita del Mediterraneo come spazio comune*.
Se guardiamo bene all‘Europa settentrionale vediamo come anche lì ci siano stati eventi che possono ascriversi al malessere europeo: la battaglia di Londra dell’estate del 2011 o la strage di Utoya, a Oslo, sono due aspetti del risvolto cupo del malcontento continentale e già tre anni fa un’inchiesta dell’americano Time spiegava come l’Europa non fosse più in grado di garantire il benessere alle nuove generazioni in rivolta.
Queste proteste sono forse il segno del fallimento europeo e, in parte, del suo disegno di integrazione sociale ed economica. Ma sono anche il segno dell’unità “spirituale” del continente su cui l’unità politica va costruita. E’ già successo in passato, nel biennio 1830-1831, quando si gettarono le basi della “primavera dei popoli” del 1848. Le ragioni erano altre, benché comuni. Anche questa potrebbe essere una “primavera” europea, fatta di comuni rivendicazioni e bisogni, di un eguale orizzonte di libertà e democrazia. Dove porterà non lo sappiamo ma sappiamo di vivere in una fase di passaggio epocale, e ci siamo dentro tutti, con speranze e timori: i capi-popolo sono dietro l’angolo, pronti a cavalcare l’onda trasformando il sogno in un incubo. Una sola cosa è certa: l’esito di questa “grande protesta europea” lo vedremo solo fra anni. Noi siamo qui, cercando di raccontare e capire un fenomeno che va maneggiato con attenzione ma che riteniamo di dover guardare nel suo insieme. A rileggerci alla prossima puntata, alla prossima piazza.
—
*si legga “Breviario Mediterraneo” di Pedrag Matvejevic e “Maometto e Carlo Magno” di Henri Pirenne. Per letture più dettagliate, “Il Mediterraneo” di Fernand Braudel