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Una vita all'improvvisa

Creato il 29 maggio 2013 da Baraka
Una vita all'improvvisa
In questo libro c'è tutto, vita, morte, gioia, angoscia, dolore, rabbia, entusiasmo, ansia, sorpresa, poesia. E soprattutto c'è l'ironia, e la capacità di parlare in modo schietto, chiaro, trasparente.
All’apertura del sipario appaiono due ampi schermi sui quali sono proiettati un manifesto e una scenografia della commedia dell’arte. Entra in scena Franca. 
Questo è l'inizio, in scena ovviamente, del racconto o meglio dei racconti con cui Franca Rame ci parla della sua vita, delle sue esperienze, del suo impegno sociale, sempre in prima linea con Dario, provocatori, strafottenti, delicati e coinvolgenti. 
“Adesso provaci un po’ a raccontarmi che non ce la fai a scrivere le tue storie! Queste cosa sono?!”chiede Dario dopo aver scovato i suoi diari, e lei alla fine: “E va bene, ci sto! Mi impegno a farne uno scritto da teatro... perfino un libro se vuoi! Però pretendo che tu mi dia una mano pensando alle cento che ti ho dato io!” Si va a incominciare...

ESTRATTO - "L’incontro sul palcoscenico"  
Sono sempre a Milano e mi trovo a recitare al cinema teatro Colosseo nella compagnia “Sorelle Nava e Franco Parenti”, un’equipe tradizionale, un ambiente cosi' lontano da quello in cui avevo vissuto fino ad allora. Si possono immaginare le difficolta' di una simile scelta in quel periodo del dopoguerra, siamo negli anni Cinquanta, e quindi alterno momenti neri a buone scritture nelle compagnie di varieta' piu' famose. I personaggi che mi vengono incontro uno dietro l’altro scorrono come in una sequenza di film muti, hanno gesti veloci e di colpo rallentati. Transitano gli adulatori stucchevoli che mi fan la corte invitandomi a cena con speranza di prosieguo in un letto e dai quali fuggo come dal pollo fritto imposto da mia madre. E vedo anche i compagni di lavoro, quelli pieni di spocchia e quelli civili e garbati; tra questi c’e' anche Dario: ma che ci fa qui con noi quel lungagnone dinoccolato e sorridente? So che ha piantato il Politecnico e perfino un lavoro sicuro per fare ‘sto mestiere da commediante, Lo intravedo ogni tanto, che se ne stava spesso in disparte, quasi a evitare le smancerie e i discorsi cosi' poveri di intelligenza sparsi sul palcoscenico e fra le quinte. Questa era la dote che apprezzavo maggiormente in lui, la riservatezza. Sono stata io a invitarlo dopo le prove a mangiare qualcosa in una trattoria, la prima volta. Dario sembrava non accettare volentieri quell’invito; poi, giacche' io insistevo, mi svelo' la ragione della sua reticenza: “Non ho un soldo” disse, “per potermi liberare dal lavoro e venire alle prove ho dovuto licenziarmi dallo studio di architettura dove sviluppavo progetti”. E io allegra risposi: “Mi fa piacere, adoro nutrire randagi, gatti abbandonati e disoccupati affamati”. Andammo in una trattoria li' all’angolo e ordinammo due porzioni di salame, pane e una birra. Per me acqua, sono astemia. Poi ci accompagnammo l’un l’altra a casa. Io abitavo dalle parti di Porta Garibaldi, da mia sorella. Tram non ce n’erano piu', quindi ci avviammo a piedi. Ci raccontavamo entrambi delle nostre vite, lui del suo lavoro, il Maggiore, e dell’Accademia in cui aveva studiato; io della mia compagnia e degli aneddoti piu' gustosi. Ci scoprimmo a ridere come ragazzini alle reciproche ironie; lo trovavo davvero spassoso, quel lungone, strabordante di racconti assurdi e festosi. In particolare se ne usci' con una frase che mi sorprese: “Mi succede spesso” disse “di parlare con qualcuno e sentirmi a disagio, perche' le cose che credo intelligenti e spiritose che vado dicendo, non vengono raccolte, e allora piano piano mi convinco di non possedere ne' fantasia, ne' spirito. Invece ogni tanto, come stasera, mi capita di sentir apprezzare le immagini che propongo, e di contrappunto ne ricevo altre, da te, che mi incoraggiano a lasciarmi andare nel fantastico”. Stop! Eravamo arrivati sotto casa mia, cioe' dove aveva preso casa mia sorella con il marito Carlo Mezzadri. Ci salutiamo, un timido sbaciucchio, poi io mi prendo coraggio e propongo: “Senti, non ho sonno: vengo ad accompagnarti verso la tua casa per un pezzo. Dove abiti?” “Vicino alle carceri di San Vittore. Ho affittato una cella” aggiunge. Rido e l’accompagno prendendolo sottobraccio: “Andiamo!” Attraversiamo parco Sempione, allora non c’erano ne' catene ne' inferriate a impedire l’accesso. E’ una notte chiara, gli alberi proiettano lunghe ombre che attraversano i prati. Non c’e' nessuno spazio che ci permetta di appartarci un poco. All’istante ci troviamo bloccati da un solco profondo che attraversa l’intero giardino; dal fosso spuntano canne e arbusti acquatici, ma acqua non ce n’e'. Piu' avanti c’e' un ponticello che attraversa il solco, noi scendiamo e ci sistemiamo sdraiati nell’ombra prodotta dal ponte. Ci abbracciamo. “E’ una fortuna” dico io “aver scoperto questo rifugio.” E lui aggiunge: “Speriamo che non aprano le chiuse e ci si trovi con l’acqua che ci inonda”. “No, e' un periodo di siccita', questo: non sprecherebbero mai tanta acqua per farci uno scherzo del genere!” C’e' un gran silenzio, torniamo ad abbracciarci felici. Di colpo sentiamo un fruscio che sale gorgogliando… “Oh mio dio, hanno mollato la chiusa!” grido io. “Presto, usciamo!” Ma non facciamo in tempo, ci arriva addosso una cascata. Ci appendiamo ai rami di un salice e riusciamo a guadagnare la riva. Siamo madidi d’acqua. Ci guardiamo e spruzzandoci l’un l’altra del nostro sguazzo scoppiamo in una gran risata. 
 
Grazie Franca.

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