Per, prep.
Le parole non devono essere lunghe per essere importanti; ci sono infatti parole cortissime, fatte di una sola sillaba – le preposizioni appunto – che sono fondamentali nella nostra lingua e che sono ricche di significati.
Oggi voglio parlare di un per che non c’è più.
Probabilmente pochi di voi sanno chi sia un tal Massimo Bray e infatti importa poco saperlo; potete vivere benissimo con questa lacuna. Questo signore, dopo essere stato direttore della rivista Italianieuropei, è stato chiamato improvvisamente ed inaspettatamente a diventare ministro dei beni culturali nel governo Letta. Ministro di seconda fascia, ben inteso, perché in Italia la cultura conta poco, ma pur sempre ministro. Il suo dicastero si chiama, per esteso, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, anche se ormai si usa chiamarlo con la sigla, Mibac.
Peraltro a diversi ministeri è toccata questa sorte di essere chiamati con una sigla, perché evidentemente è più moderno. Le sigle fanno molto “americano“, tanto che a volte, nella storica sede del ministero in via del Collegio romano, risuona il grido: “Braye, facce Tarzan…“.
Comunque a me interessa il nome esteso, perché quel ministero si chiama così solo da pochi mesi, ossia da quando è nato – sfortunatamente per l’Italia – il governo Letta. Quel ministero è stato creato, nell’autunno del 1974, per il IV governo Moro, come Ministero per i beni culturali e ambientali.
Avete notato il per? Benissimo.
Per la cronaca il primo a ricoprire la carica di ministro è stato Giovanni Spadolini, uomo di lettere, direttore di giornali – compreso il Resto del Carlino – che probabilmente non fu estraneo alla scelta del nome, visto che fortissimamente volle quel ministero.
E il per è sempre rimasto lì, anche nel riordino dei nomi dei ministeri fatto da Bassanini; anzi dei dodici ministeri stabiliti allora da quella riforma questo era l’unico ad avere nel nome il per invece della preposizione di.
Il per infatti è sempre rimasto, anche durante gli incarichi di personaggi non sempre autorevoli.
A essere sinceri, dopo l’esperienza di Spadolini, quel dicastero è stato sempre ricoperto da figure di secondo o di terzo piano, è stato per diversi anni il contentino per qualche corrente democristiana, a cui non era stato dato un ministero di maggior peso – la stessa sorte del ministero della marina mercantile – e per quattro anni anni addirittura è stato ridotto a feudo del Psdi, che nominò, tra gli altri, l’ineffabile Vincenza Bono Parrino, preside siciliana diventata senatrice, dopo la prematura scomparsa del marito, anch’egli senatore dei “saragattiani“, come chiamavano un tempo, un po’ per celia, gli esponenti di quel partito. Nella cosiddetta seconda Repubblica il ministero ha avuto forse maggior appeal, anche se il livello dei ministri è rimasto spesso sotto la sufficienza. Giova ricordare tra gli ultimi ministri almeno il poeta Sandro Bondi.
le “rovine” di Pompei
Perché è stato tolto quel per? Probabilmente nessuno ci ha fatto caso. L’estensore della lista dei ministri ha pensato di uniformare quello che gli era sembrato un errore, se non una bizzaria. Invece quel per aveva un significato. Fino al 1974 di questi temi si occupava una sezione del Ministero della Pubblica Istruzione – bisognerà poi scrivere una definizione su come e perché si è perso l’aggettivo pubblica riferito ad istruzione, ma questa è un’altra storia – e parve giusto che su un tema così rilevante ci fosse un ministero ad hoc. Anche perché l‘art. 9 della Costituzione diceva – e dice ancora:
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
La Costituzione quindi assegna alle istituzioni un ruolo attivo nel campo della cultura, di promozione, di impulso, che sembrava meglio espresso con quel per. Alle parole non sono seguiti i fatti e quel per è rimasto purtroppo lettera morta.
Adesso però non c’è neppure quel per.