Quando ti si propone una visita del genere è difficile restare indifferenti, le scuse si dileguano nella mente e l’idea si concretizza subito nei programmi. Andare a Cà del Bosco con un branco di esperti e appassionati, capitanato da Francesco Falcone e Vania Valentini, per chiudere con una verticale di Anna Maria Clementi è certamente un’esperienza dai presupposti molto invitanti.
Così ci fiondiamo in Franciacorta subito dopo pranzo e puntuali ci presentiamo nel pomeriggio per il nostro tour guidato. La prima sorpresa arriva nei panni di Maurizio Zanella, creatore di questa grande maison italiana. E lo si può anche additare come la scintilla che ha innescato lo sviluppo enologico dell’intero comparto franciacortino, relegato ad area depressa e mal sfruttata prima della sua “bizzarra idea” di produrvi Metodo Classico. Oggi è una regione fittamente vitata, dove ad ogni angolo si vedono cantine, spesso dai nomi ben noti. Una storia quasi incredibile, che ha dato credibilità e valore a una denominazione praticamente inventata dal nulla, che ha saputo fare gruppo e crescere basandosi su un disciplinare chiaro e selettivo, con l’obiettivo di crescere in qualità e offrire prodotti di buon livello, con punte in grado di confrontarsi con il meglio delle bollicine internazionali.
Inutile dire che Maurizio Zanella è un’istituzione, oggi presidente del Consorzio Franciacorta, ma è lui stesso ad allontanare qualsiasi presupposto di timori reverenziali, mostrandosi persona incredibilmente disponibile e umana. Nelle sue parole e nei suoi racconti traspare lampante la mentalità imprenditoriale, che diventa veicolo pragmatico per la definizione di un progetto che mantiene centrale l’obiettivo della qualità del prodotto. Il colpo d’occhio appena si arriva è impressionante, salendo tra le vigne basse di chardonnay, pinot nero e cabernet, coltivate su un prato impeccabile, fino a raggiungere l’imponente struttura che pare un lussuoso palazzo congressi. Al suo interno si sviluppa tutto l’apparato produttivo e di affinamento della cantina, che scopriamo però solo dopo una visita ai vigneti. Su questi c’è l’imbarazzo della scelta, perché le risorse di Cà del Bosco si dipanano su 9 comuni, per avere varietà di ambienti pedoclimatici e di uve, non solo destinate al Franciacorta ma anche ai vini fermi, progetto in cui Zanella per primo ha sempre creduto. Circa 185 ha nel loro portafoglio, quasi la metà di proprietà e il resto in affitto trentennale, cui si aggiunge una quota di conferitori esterni. Per la nostra visita tra i filari scelgono il loro gioiello migliore, la tenuta Belvedere, con i suoi due vigneti di Pinot Nero praticamente in cima a una collina nel comune d’Iseo. Lì nascono le uve che vanno a plasmare il Dosage Zero Noir, etichetta Blanc de Noir da singolo Cru che va completare la gamma d’elite di Cà del Bosco. La visita al vigneto la ricorderemo per tutta la vita, specie mia moglie (e il nostro futuro pargolo in grembo) che hanno sopportato gli sballottamenti del fuoristrada mentre salivamo sulla ripida strada sterrata in mezzo ai boschi che portano a questo isolato vigneto. La sofferenza è valsa la pena, perché quando arrivi davanti al panorama che abbraccia i monti, il lago e le sue torbiere, in una giornata tersa come quella che ci è capitata, si dispiega un emozione sincera e rilassante.Lì davanti ai vigneti in perfetto ordine Zanella ci parla delle loro scelte in campagna. Oggi sono tre anni che è iniziato il processo di conversione al biologico dei vigneti, che si concluderà su tutte le vigne in gestione nel 2017. Una scelta che tiene a precisare non avere la pretesa di aumentare la qualità del vino, ma molto più concretamente come dovere morale, verso l’ambiente e la sostenibilità dei vigneti, che sottoposti a trattamenti chimici invasivi rischiano di impoverirsi, compromettendo quindi la futura resa dei vigneti stessi.
Quella della conversione al biologico ci conferma essere un passo intrapreso solo in virtù del raggiungimento di un livello tecnico tale da assicurare la qualità delle uve al momento della vinificazione. Il rovescio della medaglia del biologico risulta essere infatti la possibilità di avere alti residui di metalli pesanti (rame) sulle uve, specie in caso di annate particolarmente difficili che costringano a ripetuti trattamenti. Al di là dell’aspetto salutistico, minato dalla presenza oltre i limiti di questa sostanza, l’interesse principale era di eliminare il rame anche e soprattutto per via dei composti che sviluppa durante le fermentazioni, combinandosi in sostanze sgradevoli e indesiderate nel vino. L’obiettivo, come detto, rimane la qualità del prodotto vino, e una volta trovata la strada per perseguirla anche operando in biologico il passo è stato fatto. Qui ci lascia solo intuire quello che vedremo direttamente in cantina, ovvero un processo quasi impensabile (l’ennesima trovata di Zanella, Capelli E Co.), che fa rabbrividire i tradizionalisti ed i puristi del vino: lavare l’uva.
Ma torniamo alla terra, alle vigne, parlando della conversione dello Chardonnay da impianti a cordone a più indicate coltivazioni a guyot, con attenzioni in potatura al fine di autoregolamentare la vite. Un processo che si completa circa in 25 anni, almeno sugli impianti fittamente piantumati a 10 mila ceppi/ettaro, e consente di non andare a interferire col ciclo della pianta evitando i diradamenti, sempre destabilizzanti del naturale equilibrio della pianta. Alla base del grande lavoro di qualità partito in vigna Zanella ricorda il grande lavoro di Antonio Gandossi, che negli anni 70 lo sostenne e coadiuvò per sradicare le vecchie concezioni locali per andare verso quello che già si faceva in Francia come in California, ovvero piantare stretto e basso, di contro alle vigne alte e larghe della tradizione contadina locale. Fu dura far entrare queste scelte all’epoca, ma il tempo e i risultati diedero ragione a quel manipolo di visionari (così apparivano allora) che volevano fare lo Champagne.
Tornati nella tenuta principale partiamo dalla storia, da quella Cascina del Bosco, ancora lì, a poca distanza dal nucleo della cantina, a ridosso di una frangia superstite della foresta che occupava la collina prima della conversione a vigneto. Una mossa che suscitò non poco scalpore e malumori nella zona, all’epoca della nascita del progetto di Zanella, ma che poi divenne traino per il rilancio economico e sociale dell’intera Franciacorta.
Passiamo alla visita della cantina, seguendo il ciclo delle uve e partendo dal loro ingresso. Le cassette da 16 kg, accatastate in bancali entrano nelle celle frigorifere, dove vengono mantenute a bassa temperatura prima di procedere alla vinificazione, compatibilmente con i carichi degli impianti, che devono gestire in successione il raccolto proveniente da oltre 180 ettari. Prima della pressatura si mette in atto la vera idea rivoluzionaria, con un impianto dove la tecnologia tocca le sue punte massime. Robot prelevano le cassette e le conducono su nastri trasportatori dove vengono rovesciate delicatamente da un automatismo. in modo da non rompere gli acini, quindi i grappoli scendono nelle vasche di lavaggio. Una successione in tre stadi. Nella prima una sorta di idromassaggio mantiene le uve per qualche minuto in acqua gorgogliante per eliminare le sostanze pellicolari, un secondo passaggio in acqua e acido citrico rimuove ulteriormente i residui e sanifica le uve, quindi un ultimo risciacquo prima dell’asciugatura con un potente impianto ad aria a freddo (sarebbe deleterio scaldare le uve ovviamente!), il cui unico limite rimane la grande rumorosità, problema cui stanno cercando di dare soluzione. Una fase importantissima quella dell’asciugatura, per impedire che nelle uve rimanga acqua in superficie, che diluirebbe il mosto.
Ad oggi l’acqua è rimossa al 99.4%, valore accettabile ma ancora in via di miglioramento con lo studio di nuovi accorgimenti. Il processo può far pensare in molti e rabbrividire taluni, ma l’idea si basa su una pratica comune a tutta la frutta lavorata dall’industria alimentare, solo che non era stata applicata all’uva prima dell’idea, ancora una volta rivoluzionaria, della direzione di Cà del Bosco, prima a mettere a punto e brevettare questo metodo per l’uva, attivo a pieno regime dal 2008, ed ora nei progetti di altre realtà del vino.
Dopo lavaggio e asciugatura, le uve ancora a grappolo intero subiscono una selezione manuale su nastri di cernita, quindi vanno in pressatura soffice in ambiente di azoto, per impedire ogni possibile ossidazione, ovviamente selezionando i mosti fiore per le cuveé più prestigiose.
Come già accennato la pulizia delle uve diventa mezzo per avere mosti puliti, ed evitare la formazione di prodotti indesiderati in fermentazione. L’idea della precisione quasi chirurgica si fa largo lungo tutto il processo, per impedire che ossigeno e sostanze estranee intervengano modificando negativamente le componenti del vino, e si prendono ad esempio i chinoni, sostanze amare che si sviluppano maggiormente in presenza di ossigeno.
E così scopriamo l’ascensore che eleva i tank di affinamento per consentire travasi per caduta, senza uso di pompe e restando in ambiente inerte. E incappiamo in un altro importante “organo” della cantina, un laboratorio di analisi dove vengono campionati circa 280 delle oltre 500 componenti chimiche del vino. Studi effettuati sia sui propri campioni che su bottiglie di altri produttori, da altri luoghi e con altri stili, non tanto per cercare di replicarne l’espressione, ma per comprendere differenze ed eventuali lacune, e per trovare riscontro tecnico e scientifico a fronte del grande lavoro di degustazione effettuato dall’equipe di cantina, di cui parte attiva è ancora lo stesso Zanella, che con Capelli e altri tre collaboratori procede alla scelta dei tagli.
Procedendo nel percorso si attraversano le suggestive volte sotterranee dove riposano sui lieviti le bottiglie sulle pupitre, dove subiranno remuage manuale (chiaramente per le etitchette più prestigiose, il resto va in gyropalette) prima della sboccatura e della vestizione. Davvero un viaggio che sembra procedere nei sotterranei, come a entrare nel cuore dell’azienda, per sbucare in un salone spesso teatro di eventi e degustazioni. Raggiungiamo anche la barriccaia, dove la mano degli architetti è evidente elle botti esauste riportate a soffitto, come a specchiare l’ambiente sulla testa del visitatore, che non può restarvi indifferente.L’uso delle barrique è importante in azienda, non solo sui rossi (celebri ad esempio il Pinero e il bordolese Maurizio Zanella), ma anche sulle basi spumanti, considerato che tutti i millesimati vengono da vini passati in legno, ed anche la linea Prestige conta sempre una quota minima del 20% di vino affinato in rovere francese, comunque mai di primo passaggio, perché l’intento è quello di dare rotondità e stabilità al vino, perché il legno mantenga vivo il vino, ma senza dare composti sgradevoli né impronte aromatiche sovrastanti.
La cantina segue un percorso affascinate per il visitatore ma che è il medesimo per i dipendenti, coinvolti nel conoscere e vedere direttamente tutte le fasi del lavoro cui contribuiscono. Nelle ultime fasi ovviamente il degorgement, automatizzato e gestito in ambiente saturo di azoto, coerentemente col resto del processo, che si chiude con la ricolmatura e riempimento con azoto dello spazio tra liquido e tappo, per ridurre al minimo lo sviluppo di ossidazioni a seguito della ritappatura con sughero. Tecnologia ai massimi livelli per il raggiungimento degli obiettivi posti.
Chiudiamo il nostro tragitto, fatto di un piacevole alternarsi di tecnologia, cultura, attenzioni architettoniche e cenni artistici, dal mastodontico rinoceronte sospeso alle opere dei più grandi fotografi mondiali, fino alle tre gigantografie delle persone che più hanno significato per Cà del Bosco: André Dubois, l’enologo che ha dato credito all’ambizioso progetto di fare metodo champenoise in Franciacorta, Antonio Gandossi, il viticoltore che portò l’innovazione nella gestione del vigneto franciacortino, e Anna Maria Clementi, che col marito Albano Zanella diede fiducia e credito al figlio Maurizio per realizzare questo folle progetto di cui oggi non possiamo che ammirare i successi.
E’ quasi sera quando chiudiamo la visita e ci sediamo in sala degustazione, dove ad aspettarci c’è lo storico enologo Stefano Capelli, che dalla scomparsa datata 1990 di André Dubois, primo fautore del successo di Cà del Bosco, ha preso in mano le redini della cantina, forte delle esperienze maturate proprio a fianco dell’esperto chef de cave francese.E’ lui a introdurci il lavoro di cantina, e a darci qualche nota tecnica sui vini scelti per la degustazione, in una selezione più unica che rara, che ha invogliato anche la giovane Maria Zanella (figlia di Maurizio) a partecipare a questo irripetibile evento.
Si aprono le danze col Dosage Zero Noir, etichetta che ridà singolarità e valore alla migliore espressione del pinot nero tout court, utilizzando le sole uve provenienti dai vigneti appena visitati di Tenuta Belvedere. Tale l’acidità e la finezza ottenibile da quel cru che nel 2003 si è scelto di utilizzarne una parte per andare a dare spalla all’Anna Maria Clementi, in un’annata torrida che necessitava di trovare equilibrio con una freschezza difficilmente riscontrabile in altre parcelle vitate. Col Dosage Zero Noir si parla comunque di un vino al top di gamma, che non viene prodotto nelle annate sfavorevoli, come successe nel 2002 e proprio di recente nel 2014.
Dosage Zero Noir 2005. Annata segnata da un agosto piovoso e fresco, che ha portato una maturazione lenta e graduale mantenendo alti valori di acidità. Il colore richiama immediatamente un BdN, oro pieno dai riflessi cipolla, imperlato di fitte bollicine, interminabili. Al naso è generoso e sfaccettato, con note di cannella, biscotto, agrume e panettone lieve. Si apre continuamente con ricordi di tabacco biondo, frutto rosso di mirtillo, orzo, nocciola, muschio, ginepro e cioccolato bianco. Un vero turbine di profumi raccolti con eleganza nel calice. Al palato entra deciso e vivo sia in quanto a freschezza che a bolla, con un’irruenza ancora molto giovanile nonostante il lungo affinamento. L’assenza di dosaggio lascia la bocca estremamente pulita e avvolta da un corpo pieno e ricco di ritorni al gusto, con note di spezia, crema di caffè, orzo e liquirizia. Una combinazione perfetta di dinamica, eleganza e carattere. 90
Per gli appassionati di tecnicismi Capelli ci racconta dell’utilizzo di lieviti commerciali, neutri, con una fermentazione per 3 mesi a 12°C. Tutti gli accorgimenti di cantina permettono di imbottigliare con solo 50 mg di solforosa totale.
Dosage Zero Noir 2001. Il colore è praticamente il medesimo, appena meno intenso, il perlage è ancora più fine e al contempo più lento, quasi il tempo gli abbia donato un passo più elegante. Anche al naso l’espressione è più raffinata e giocata su toni più dolci, dal miele di acacia, alla vaniglia, con tocchi di scorza di limone, note di burro e crema mascarpone. All’assaggio avvolge con maggiore cremosità, anche in virtù di una bollicina meno intensa e più cesellata, e chiude con un finale di biscotti al malto, elegante e segnato da una maggiore vena sapida iodata, con ricordi di timo e cenni fumé. Gran bella evoluzione per questa declinazione del pinot noir, più suadente rispetto alla 2005, che a mio gusto resta comunque più emozionante. 87
Passiamo all’etichetta al vertice, superata solo dall’omonimo rosè, l’Anna Maria Clementi 2005 Brut. Composto per 60% da chardonnay, e per il resto uguali porzioni di pinot nero e pinot bianco, selezionat dai migliori vigneti, e dosati dopo la sboccatura con solo 8 g/litro di zucchero. Appena nel bicchiere mostra un perlage fine e ricchissimo, che aiuta a trasportare subito al naso i profumi delicati e fini di vaniglia, pepe bianco, pesca bianca e mandarino. All’assaggio avvolge con una bolla fine, cremoso, lungo e agrumato, con un susseguirsi di piacevoli suggestioni gustative, di lime e menta, pan brioche, frutto dolce di albicocca e pesca e cenni di liquirizia nel finale, lungo e saporito, pulito, elegante e godibile a tutto pasto, ma anche da solo. 89
Anna Maria Clementi Brut 2001. I suoi toni acquistano riflessi dorati appena più decisi, mentre più dolci e tenui si fanno i profumi, anche in questo caso il 2001 lascia un ricordo di miele, e poi ancora vaniglia, nocciola, limone e note marittime. Al palato è fresco, equilibrato, elegante e dal finale sapido, dove echeggiano note di tabacco, rabarbaro e cioccolato al latte, con qualche punta amaricante. Bella evoluzione ma meno coinvolgente, stessa sorte del Dosage Zero Noir. 87
Anna Maria Clementi 1999. Il colore non cede al tempo e mantiene cristallino e brillante i toni dell’oro giovane. Ci metti il naso e ti lasci trasportare in un incanto di albicocca, frutta secca, pepe verde e rosa, biscotti al burro e arancia caramellata, poi ananas disidratato e orzo. Al palato entra e vuole sedurre, con la sua bolla finissima e godibile, che rinfresca senza urtare, pulisce e lascia voglia di un secondo sorso, mentre il primo ancora continua a suggerire aromi di frutta candita, spezie e pasticceria, con viva mineralità e freschezza imperturbabile di sfondo. In questa versione era non dosato. Bellissimo, vivo, davvero un calice da ricordare a lungo. 95
Anna Maria Clementi 1995. Dimentico di prendere appunti tecnici, che potrei spulciare dalle schede tecniche rilasciateci a corollario di un’organizzazione impeccabile, ma preferisco riportare le note delle mie sensazioni, in una degustazione che è divenuta un sereno confronto tra i presenti e il vino nei nostri calici, alternando la curiosità dell’analisi al piacere della bevuta, che è il fine per cui nascono queste bottiglie. In questo 1995 escono ricordi di frutta secca e biscotteria, crema pasticcera e ancora netti sbuffi di arancio, conditi da camomille, cenni di china e inchiostro. Al palato mostra minore sapidità del precedente, ma maggiore avvolgenza, un corpo forse più rotondo, sempre sostenuto da sorprendente freschezza. Gran durata al gusto, con ritorni agrumati e sapore, tra rintocchi fumè e finale sottilmente amaricante di radice. Pieno e compiuto. 92
Anna Maria Clementi 1985. Annata storica per praticamente tutta la penisola, e chiudiamo questa verticale andando indietro 30 anni, ad assaggiare un vino prodotto dalle mani di André Dubois. Si percepisce la differenza di stile, meno opulento ed espressivo nei profumi, ma ugualmente elegante e forte di una materia sottostante di qualità. Nei ricordi spiccano burro e pepe bianco, traspare anche qualche note ossidativa, con frutto maturo e disidratato misto a ricordi di nocciola, tabacco e biscotti secchi. Al palato sorprende con l’estrema beva, la bolla che infinitesimale si scioglie al palato, il finale amaricante di liquirizia e tabacco, con echi di nocciola tostata. 88
Un onore quest’ultimo assaggio, di vino ancora integro e sorprendente, grande esempio delle innegabili capacità di Dubois, che portò, insieme alla sua esperienza maturata nelle più grandi Maison d Champagne, vedi Taittinger e Moet&Chandon), la serietà e il rispetto per questo lavoro, valori tuttora alla base di tutte le scelte di Cà del Bosco.
Ce ne andiamo con il ricordo di una giornata speciale, con la consapevolezza di aver partecipato a una degustazione unica, con ricordi fulgidi di calici davvero emozionanti ben fissati nella mente, e soprattutto col piacere di avere approfondito una realtà di grandissimo prestigio, che abbiamo appurato essere il frutto del lavoro di persone straordinarie, umanamente oltre che tecnicamente.
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