Oggi proponiamo questo articolo di pochi giorni fa, a firma di Massimo Gramellini, vicedirettore de La Stampa
Viva Yara
Quanto mi piace l’Italia di Yara, la ragazzina scomparsa una settimana fa. Mi piace il suo cellulare con soli dieci numeri in rubrica: un mondo piccolo di affetti seminati in profondità, perché voler bene richiede tempo e troppi amici significa nessun amico. Mi piace la sobrietà dei suoi genitori che non fanno appelli, non si affacciano ai talk show e respingono la fiaccolata proposta dal parroco: il dolore è una cosa seria, metterlo in piazza non significa condividerlo, ma svenderlo. E mi piace il contegno del suo paese, Brembate, dove nessuno rompe la consegna del silenzio. Ogni tanto spunta un microfono sotto qualche naso infreddolito, ma la reazione è sempre un diniego, un passo che accelera.E’ una storia priva di emozioni e gonfia di sentimenti, quindi poco televisiva e molto viva. Il parallelo con il circo di Avetrana sembra inevitabile, ma non è il caso di farne l’ennesima puntata di un derby Nord-Sud. Il nonno-padre-marito delle vittime di Erba era lombardo, eppure il giorno dopo stava già in televisione a perdonare tutti, come se il perdono fosse un vino novello che gorgoglia dall’uva appena pestata anziché un barolo da lasciar riposare per anni affinché sgorghi saporito e sincero. Nessuno si sarebbe appassionato ai mondi cavernosi dello zio e della cugina di Sarah Scazzi se la televisione non li avesse resi popolari prima che si accertassero le loro responsabilità. A quel punto è stato come se la polizia avesse arrestato due vip.
A Brembate va in scena un’altra storia, un’altra Italia a cui ci stringiamo in silenzio, come piace a lei.