D’accordo. Ci siamo. La penna? Eccola, eccola qua: una bella penna nera: ci sto scrivendo proprio ora, vedi che solchi? La adoro. Il foglio, il foglio sta sotto, perfettamente bianco, una piega là, in fondo, la vedete? Marchio di qualità. Ottimo. Io? Io ci sono, ma eccomi, un bel pezzo di ragazzone di 60 chili per un metro e quasi novanta, se non fosse che sto scrivendo pensereste che sono morto, di fame; che un morto di fame poi in fin dei conti lo sono anche.
Bene. La matita l’ho temperata e sta lì bella appuntita, in riga in alto al foglio, ma non mi serve; comunque mi dà una certa sicurezza.
Mi accendo una paglia e vi spiego tutto.
Ok.
Ci sono.
Allora. Voglio creare l’atmosfera per parlarvi di una certa storia di cui forse poco m’importa, ma chissà, è che mi si sta scrivendo da sè nel cervello e in qualche modo dovrò pur sbarazzarmene; e vado convincendomi che sia proprio lei, una stronza parassita che entra anche nella testa più insensibile, e a maggior ragione nella più insensibile, per costringerla al rigetto, ed all’inevitabile contagio. Racconta la sua storia attraverso di me, quella stronza; la racconta a voi che mai ci parlereste, stupra la mia intelligenza per partorire la sua immagine. Ora, io cercherò di essere il più conciso possibile, evitando tutti i particolari futili e i paroloni ottocenteschi, o le gag da futurismo; per togliermi da quest’impiccio il prima possibile e tornare a crucciarmi dei meritati cazzi miei.
Un giorno che non ricordo, forse oggi, del mese in cui siamo ora che a giudicare dalle foglie direi, ottobre o giù di lì; a un’ora poco importante del primo pomeriggio lei chiuse lo zainetto con un’aria tra il nervoso e il rassegnato, quella che in gergo è detta aria da sfigata, fissò pensierosa l’orologio a schermo della tv e dopo qualche calcolo paranoico si lasciò la casa alle spalle spingendo sui pedali della bici, che aveva detto che doveva gonfiare la ruota l’ultima volta che ci siamo visti, una settimana fa, e se l’era scritto anche sul braccio, e ovviamente ora pedalava a stento con questa ruota a terra, direzionata verso il negozio, o il centro, o chissà. Però c’era un bel sole, e allora lei prese un pò d’animo, e pensò che in fondo non sembrava una donna gestante un feto di elio e che magari quei suoi dannati capelli quadrati in testa e del colore sbagliato non erano così quadrati e quella tinta così scura sul suo viso color cadavere non stava poi così male, e magari le sue cosce non erano grosse quanto quelle delle ciccione con la cellulite che vedi in spiaggia e dici, madonna. Lei lo sapeva che non c’ero; sapeva che non c’ero anche quando dovevo esserci, figuriamoci se credeva che ci fossi oggi. In un certo modo, lei riusciva a sentirmi, e io sentivo questa cosa, e facevo finta di niente, perchè io a lei prima e dopo quei 40 minuti in cui la sentivo stare zitta non ci pensavo mai, e quindi anche se avrei potuto saperlo, che c’era, avevo altri cazzi per la testa, io, che essere il suo scrupolo di coscienza. E quindi attraversò tutta la pista ciclabile, tra quegli strani castagni di cui non conosceva il nome, dalle foglie così lunghe color arancio, e giallo, e marrone, e tutti i loro frutti così simili alle castagne, ma più scuri, con quei gusci che le ricordavano un episodio di Dragon Ball, tutti spappolati per terra, mentre cercava di evitarli; come tutti quegli strobili dell’abete vicino alla sua facoltà, che l’altra mattina l’avevano affascinata tanto, uno strano tappeto di piccoli embrioni color senape dorata che impreziosiva l’asfalto alla luce fredda del sole d’autunno, e allora ci aveva camminato sopra, e li aveva sentiti così soffici, e intanto si sentiva così in colpa, ma quando il giorno dopo, che forse era quella mattina stessa, ripassando, aveva trovato solo una grande schiacciatina gialla a sporcare il catrame, si era detta che in fondo lo sapeva, e aveva pensato, chissà se la gente si rende conto di fare manovra sullo sperma. Non aveva la testa troppo a posto, lei.
Comunque sia, parcheggiò la bicicletta vicino a un negozietto inutile in cui doveva effettivamente comprare qualcosa ma non era così urgente, così per tutto il tempo intanto pensò solo ed esclusivamente al pacchetto di sigarette che aveva messo nello zaino quella mattina, e uscita dal negozio, tra l’analisi di una faccia e quella di una scarpa, e quella di una busta fashion, aveva tirato dritto fino alle colonne, il solito stupido porticato, che già sapeva vuoto di gente di passaggio, così come in effetti era, e allora percorrendolo guardò la vetrina come se potesse davvero essere interessante la vetrina di una banca, con quegli enormi cartelloni striati di giallo su cui troneggiavano dei grossi numeri di telefono e tasso d’interesse. Altri giorni si era sistemata i capelli nelle vetrine di Pimkie e della Benetton, e si era sentita anche abbastanza cretina, così si era detta ma smettila, cosa vuoi che gliene importi di come sei, però nel mentre mendicava qualche sguardo di consenso negli ultimi passanti che incrociava prima di vedermi.
Così, questo giorno, cioè forse oggi, trattenne il respiro prima di arrivare al porticato, così da non sentire il colpo quando le sue ineccepibili previsioni non sarebbero state eccepite, e ammirando la convenienza di una banca che ora non saprebbe neanche dire quale fosse, finse di non vedere che quel gradino di marmo era insolitamente vuoto, che non c’era più la cenere di sigaretta che restava lì ogni giorno e che la polvere stava iniziando a riformarsi esattamente euguale a quella che sbiadivia gli altri gradini. Non che lei avesse passato intere ore di attesa ad osservare questa minuzia di dettagli, nei giorni precedenti, nelle precedenti settimane.
Tirò dritto in quest’apnea emotiva fino alla piazzetta solita, dove fu attratta dal miraggio di una bella panchina vuota nella metà civile della piazza, quella con vista edicola e telo che copre la Ghirlandina, così da non doversi arrischiare in quella buia in cui non aveva mai capito perchè si relegavano tutti gli stranieri a sfamare loro stessi o i piccioni o i peggio tamarri a insultare loro stessi o gli altri, attorniati dai piccioni. Sta di fatto che affrettò il passo prendendo pieno possesso della seduta con un repentino poggiare il culo nel mezzo e tirar su lo zaino accanto a sè, zaino da cui stava prelevando, nel modo più sobrio che la sue disfunzioni psicomotorie le permettevano, una sigaretta: che era già da cinque minuti che aveva smesso di pensarci, e doveva compensare, una volta che ce le aveva, e le poteva pure fumare; e così automaticamente l’estrazione della sigaretta suonò uno “scusami”, e in un attimo si ritrovò davanti il solito tossico, che faceva le medie con me, di cui avevamo anche parlato l’ulitma volta, mi pare, o ne ho parlato con qualcun altro? Bah comunque, il solito tossico che le disse, mi dai una sigaretta? E lei gli rispose con la faccia sfottente, oh ciao, ancora tu! E lui rimase un pò intontito, come se si fosse trovato davanti a un palo parlante e si stesse domandando se era ancora fatto o se doveva ancora farsi. Poi quell’ultima sinapsi riuscì a dare un pizzico al cervello, al che lo sguardo spento fu attraversato da un attimo di coscienza e si ricordò, così lei gli chiese di me mentre gli accendeva la sigaretta, lui ci mise un pò per ricordarsi anche di me, che non si può prentendere tanto da un tossico dipendente cazzo solo in cinque minuti!, e poi gli disse che no, non mi aveva visto, magari ero tornato a casa, ma era la mia ragazza?, ma le piacevo?, vabbè se mi vedeva me lo diceva che mi cercava, non ti disperare le disse, andando via col suo giornalino di Tex sottobraccio, pensando già ad altro, o forse a nulla, mentre lei di spalle gli urlava un non mi dispero mica. Si sedette all’altra estremità della panchina una cinese sulla cinquantina. Vedendo un vecchio ondeggiare incerto alle sue spalle, lei rinunciò al territorio e buttò giù lo zaino, rintanandosi in un angolo e facendo un ampio cenno di accoglienza con la mano libera. L’uomo indugiò, domandò, si sedette, commentò, la cinese si limitò a un sorriso compiacente da non ho palesemente capito nulla e guardare altrove, lei guardava la parte oscura della piazza ma continuava a dargli risposte secche con una certa cortesia, così che lui, invogliato dalla gentilezza e dalla solitudine, ma frenato dalla perduta fantasia, tirava avanti questa improbabile conversazione a singhiozzi. La cinese rispose al cellulare e poi si allontanò. Man mano che la sigaretta si consumava, il vecchio incalzava, con una leggera ansia, le domande tipiche da vecchio, con una ridondaza di argomenti e di parole che si perdevano le une nelle altre, mentre lei osservava con attenzione il tizzone della sigaretta e stizzava di continuo. Un altro vecchio arrivò già parlando, che non l’aveva mica visto che era qui, si sedette e continuò un discorso mai cominciato. Lei, sollevata, spense con dedizione la sigaretta su un sanpietrino, si alzò col suo bel mozzicone in mano, salutò e iniziò una dignitosa invisibile ritirata che aveva come prima tappa dal sapore ecologistico il bidone della spazzatura, dove si imbattè in un terzo vecchio storpio che, ancora a un buon paio di metri dalla panchina, esordiva in un inascoltato “ma due chiacchiere me le faccio và” claudicando verso i colleghi. Lei si allontanò con le mani in tasca e il vomito in gola, sulle labbra un sorriso leggero e un sapore di tabacco e catrame che continuava ad accarezzare con la lingua, in uno dei tic sobri con cui ultimamente aveva sostituito la sua sindrome di Tourette.
Lei lo sa che io non ci sarò, ma continuerà ad aspettarmi. Non è che sia brutta, o antipatica, o apprensiva. Per carità, tanto buona, tanto carina, tanto cordiale, o magari no, magari il contrario; o magari quello che volete. Non è che mi piaccia farla stare male o non mi piaccia vederla soffrire. Non capisco perchè cercare una soluzione più complicata e profonda del semplice fatto che a me, di lei, non me ne frega niente.