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È l’alba, le prime luci del nuovo giorno iniziano a penetrare nella stanza dove Francesca nel suo letto piange in silenzio. Tra poco inizierà la procedura per l’induzione di un travaglio simile a quello di un parto. Ma Francesca non deve partorire, deve abortire. La nuova vita che porta in grembo da 23 settimane è affetta da una gravissima malformazione del cervello, la oloprosencefalia. Francesca Pieri, che all’epoca aveva 35 anni, è ricoverata già da due giorni in un grande ospedale romano ma non ha ancora iniziato la procedura di induzione, che consiste nell’introduzione nell’utero di ‘candelette’ di prostaglandina per stimolare le contrazioni del travaglio. Fino alla 12ma settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di parto.
«Il giorno del ricovero», racconta, «è servito per il disbrigo di tutte le pratiche burocratiche. Il secondo invece non ho fatto niente, ho semplicemente aspettato». Quel giorno infatti erano di turno solo medici obiettori, che si sono rifiutati di avviare la procedura di induzione. Francesca quindi ha trascorso tutto il giorno in mezzo a donne in travaglio, bambini appena nati, nonni euforici, fiori e regali, in attesa del medico non obiettore che le introducesse la prima candeletta. Era da sola, con quella vita sospesa in pancia e un profondo dolore nel cuore. Non le rimaneva altro che piangere, in silenzio. Ma anche il pianto le è stato negato: «Signora, cosa piange? Si prepari, questo sarà il giorno più lungo della sua vita». La voce è arrivata dal corridoio, proprio alle prime luci dell’alba. È l’ora del cambio turno, finalmente sta per arrivare un medico non obiettore ma il suo collega prima di andarsene ha voluto lasciare il segno. Sono passati molti anni, ma quelle parole fredde come il ghiaccio Francesca ce le ha scolpite nella testa, e non le dimenticherà mai.
E lei è stata persino «fortunata»: una volta che ha iniziato la procedura di induzione, che è durata in totale un giorno e mezzo, non ha più incontrato medici obiettori. Al contrario di Gea Ferraro, che al quarto mese di gravidanza scopre che il suo bambino è affetto da trisomia 18, una patologia talmente grave da essere definita dai medici ‘incompatibile’ con la vita. Gea, che quel figlio l’aveva tanto desiderato, decide di interrompere la gravidanza. Contatta personalmente una ginecologa non obiettrice che lavora in un altro ospedale della capitale (e che preferisce non essere citata: «Facciamo già tanta fatica a lavorare, non voglio crearmi ulteriori inimicizie tra i colleghi»). La dottoressa programma il ricovero in maniera da farlo coincidere con il proprio turno. L’induzione viene avviata, ogni 3 ore viene inserita una candeletta, ma nel frattempo c’è il cambio turno, Gea guarda l’orologio, si accorge che sono passate più di 3 ore dall’ultima somministrazione e chiede perché non le venga inserita la terza candeletta visto che il travaglio non si è ancora avviato: «Io queste cose non le faccio», si è sentita rispondere. Gea ha quindi aspettato, non ricorda neanche quanto, finché qualcuno è venuto a somministrarle la terza dose del farmaco. Il suo travaglio è durato 18 ore.
Quello dell’aborto sta diventando sempre più un percorso a ostacoli, nel quale le donne – già provate da una delle scelte più dolorose della loro vita – devono fare lo slalom tra ostacoli burocratici e medici obiettori. Obiettori che aumentano sempre di più: secondo i dati forniti dal ministero della Salute si è passati, tra i ginecologi, dal 58.7% del 2005 al 70.7 nel 2009. Ma il numero di medici realmente preposti alle interruzioni di gravidanza, soprattutto agli aborti terapeutici, è ancora più basso di quel che sembra: «Gli aborti entro la dodicesima settimana», spiega Silvana Agatone, presidente della Laiga, un’associazione che riunisce i ginecologi in difesa della 194, «sono fatti in day hospital, si tratta di interventi programmati, la cui durata è nota e per i quali è possibile chiamare medici ‘a gettone’». Cosa che invece non è possibile per gli aborti terapeutici, quelli oltre i 3 mesi, che, come abbiamo visto, possono essere anche molto lunghi e dunque hanno bisogno di essere seguiti da personale strutturato.
«Poiché non esiste un elenco dei medici non obiettori», continua la dott.sa Agatone, «abbiamo fatto una indagine empirica, dalla quale risulta che i ginecologi non obiettori strutturati dentro gli ospedali italiani sono circa 150 e, poiché i giovani non sembrano particolarmente sensibili a questo problema, c’è il rischio concreto che man mano che gli attuali medici non obiettori vanno in pensione non vengano sostituiti». Al Secondo Policlinico di Napoli, per esempio, dallo scorso luglio a effettuare gli aborti è rimasto solo un medico, che è anche il responsabile del Centro per le interruzioni di gravidanza dell’ospedale.
Strano destino quello dell’obiezione di coscienza, che, come scrive Chiara Lalli nel suo recente libro C’è chi dice no (Il Saggiatore), «ha subìto negli ultimi anni un vero e proprio stravolgimento e oggi è spesso usata come un ariete per contrapporsi ai diritti individuali sanciti dalla legge».
L’obiezione di coscienza nasce infatti per opporsi a un obbligo universale che riguardava tutti i cittadini (maschi) e a cui non era possibile sottrarsi: l’obbligo di leva. Chi sollevava l’obiezione di coscienza andava incontro a pesanti conseguenze, persino penali, come raccontano alcuni obiettori della prima ora nel libro di Lalli. Il moderno obiettore, invece, non solo non paga nessuno scotto per la sua scelta, ma, al contrario, ne ottiene indubbi vantaggi, sia in termini di soddisfazione professionale che di carriera. È per questo che il numero degli obiettori è vertiginosamente salito negli ultimi anni: fare aborti non è certamente gratificante e l’obiezione di coscienza – fatti salvi coloro che la sollevano per convinzione – è un’ottima scappatoia offerta dalla legge per sottrarsi a una parte sgradevole del proprio lavoro. Una legge che però è molto chiara: l’obiezione di coscienza può essere sollevata esclusivamente in relazione al «compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza».
Non può essere legittimamente sollevata, per esempio, per rifiutarsi di somministrare un analgesico durante il travaglio abortivo oppure di fare il raschiamento dopo l’espulsione del feto, ad aborto già avvenuto, o ancora di certificare lo stato psicologico della donna. Sono invece tante le testimonianze che le donne affidano soprattutto ai forum in rete e che raccontano di travagli durati molte ore, se non giorni, senza il minimo sostegno farmacologico né psicologico. Donne che portano avanti il travaglio abortivo in stanza, affianco ad altre: Francesca ricorda che la ragazza che era in stanza con lei ha espulso il feto sul suo letto, lì affianco, da sola, mentre lei iniziava ad avere le prime contrazioni. Un’altra donna racconta su un forum: «Mi hanno indotto il parto per 12 ore per poi essere lasciata sola al momento dell’espulsione del feto. Mi hanno lasciato la mia bambina in mezzo alle gambe e in mezzo al sangue per 4 ore e nessuno si è degnato di venire a vedermi». Anche Laura Lauro, napoletana, che ha abortito alla 21ma settimana, ricorda che al momento dell’espulsione è stata lasciata sola: «Ho espulso un feto vitale, nessuno si è preoccupato di tagliare subito il cordone e portarlo via. Quando l’ho sentito che mi sfiorava le cosce ho urlato perché lo portassero via subito».
Tutto questo però ha solo in parte a che fare con l’obiezione di coscienza. Se infatti il singolo medico può rifiutarsi di praticare l’aborto, la struttura sanitaria è in ogni caso obbligata – è sempre la 194 a stabilirlo – a garantire il servizio di interruzione di gravidanza e i «procedimenti abortivi devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna». Dignità che invece è troppo spesso calpestata. Un’altra donna racconta su un forum il suo calvario: dopo essersi sottoposta a vari tentativi di procreazione medicalmente assistita, rimane incinta di due gemelli. Alla ventesima settimana perde uno dei due. Dopo una decina di giorni rifà l’ecografia: «Liquido amniotico inesistente, arti inferiori oramai infilati nel canale», non c'è più niente da fare neanche per il secondo. Ma il battito c’è ancora, chissà per quanto, e quindi per procedere all’aborto terapeutico c’è bisogno del certificato dello psichiatra, ma quello in turno è obiettore e si rifiuta di firmarlo: «La sera un medico con la coscienza e l’umanità che a qualcuno ancora rimane, prende la responsabilità di togliermi dall’incubo, una pasticca, una sola basta per avere un altro travaglio».
Troppo spesso i dibattiti sull’aborto non fanno i conti con le esperienze concrete che le donne vivono sulla propria pelle. Per Francesca – che oggi ha altri due bambini ma che si sente pienamente madre anche di quella figlia mai nata – l’aborto è stato un discrimine nella sua vita, un momento che ha segnato un prima e un dopo. E non riesce proprio a capire l’accanimento dei sedicenti sostenitori della vita: «Come se io fossi per la morte! La verità è che ogni esperienza è a sé. Io stessa, pur non essendo affatto pentita della mia dolorosa scelta, non so dire cosa farei se mi dovessi trovare di nuovo nella stessa situazione. So però che la sola idea di non poter decidere mi atterrisce. È per questo che sarei disposta anche a incatenarmi perché sia garantita a ogni donna la possibilità di scegliere».
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