I danni inferti dal telefono cellulare alla nostra vita non si limitano al fatto di esserci giocati il diritto alla libera reperibilità. Non poteva essere sufficiente lo scoprirci tutti incatenati, volenti o nolenti, alla puntuale rintracciabilità dei nostri passi da giustificare constantemente? Manco per niente, c’è un altro danno, per certi aspetti più sgradevole, al quale non riesco a rassegnarmi: la scomparsa della fottuta riservatezza e di uno straccio di discrezione nel gesto del telefonare.
Anche qui la comparsa del cellulare ha combinato disastri e creato autentici mostri.
Facciamo il punto: fino al 1995 non c’erano mica tanti cazzi: si telefonava da casa o dalle cabine telefoniche. Punto. Se volevi provare l’ebbrezza di comunicare in movimento, ti compravi con un amico un paio di walkie talkie da tre kili e ti improvvisavi MacGyver.
In entrambi i casi, a casa o nella cabina, la telefonata era necessariamente un gesto privato che aveva pochi testimoni. Anzi, non contenti, spesso allungavamo i fili fino a portarci il telefono in stanza, perché persino le cucine o i salotti erano luoghi troppo pubblici. Lo ricordiamo tutti, davanti ai telefoni pubblici se qualcuno che attendeva dopo di noi ci stava troppo vicino, lo guardavamo male o lo apostrofavamo con un seccato “Le spiace?”, invitandolo a starci a due palmi dal culo. Quel che dicevamo al telefono erano cazzacci nostri, e che qualcuno ci ascoltasse era considerato inopportuno, maleducato, inaccettabile.
Bene, una manciata d’anni dopo il mondo è impazzito e da allora va tutto a puttane. Quelle stesse persone che si chiudevano in camera, che si sigillavano nelle cabine telefoniche, quelle stesse identiche persone tanto piene di pudore e riservatezza, hanno letteralmente dato di matto. Oggi tutti parlano al telefonino davanti a tutti. Anzi no, mica si limitano a parlare. La gente al telefonino ci urla, cazzo, proprio ci strepita dentro, letteralmente vomitandoci in faccia i cazzi suoi senza darsi alcun pensiero.
Dieci anni fa i curiosoni dovevano tendere l’orecchio, accostarsi alle porte, per sbirciare scampoli di telefonate. Oggi quegli stessi curiosi non ne possono più, ne hanno piene le balle dei fatti altrui.
In treno, nel bus, in qualunque sala d’attesa o coda alle poste, la gente riferisce i propri intimi casini, i problemi di salute, le paturnie, i pettegolezzi, gli sputtanamenti e le cattiverie a decine e centinaia di perfetti sconosciuti.
La tanto decantata privacy moderna, per cui firmiamo ogni giorno inutili moduli, e che spesso rivendichiamo istericamente e fuori luogo, magicamente scompare quando mettiamo all’orecchio il cellulare e ci immergiamo nei nostri chiacchiericci. Invochiamo rispetto per il nostro privato, ma poi lo sbattiamo in faccia al primo che passa.
Al cellulare, davanti a tutti, gridiamo, piangiamo, disturbiamo, ridiamo sguaiatamente, come se fossimo soli nella nostra cameretta. Parliamo a voce alta davanti a gente che dorme o vorrebbe riposare in treno, ci stiamo decine di minuti appiccicati tediando o facendo venire il mal di testa a gente stanca, consegniamo i nostri più intimi segreti a gente che francamente non sa che farsene. Le suonerie Jamba sporcano l’aria al massimo volume, costantemente, e consegnano ai posteri una umanità instupidita e assordata. Per resistere dobbiamo munirci di Ipod, qualunque musica passi, chè pur di mettere dei paletti tra noi e quelle ciarle urlate io personalmente sono disposto pure a sorbirmi l’intera discografia di Tony Santagata, o il podcast della conversazione settimanale di Marco Pannella su Radioradicale.
Che poi tra l’altro, per tutti gli inferni, appena il cellulare suona ci precipitiamo a rispondere come drogati, le donne ravanano nelle loro immense borse con violenza, sferragliandoci dentro fino ai gomiti, gli uomini si avventano disarticolati sui cappotti o nelle borse da lavoro, e sembriamo tutti dei novelli Gollum a cercare e trovare il loro tesssssoro, e non c’è cinema, chiesa, museo, o funerale che tenga.
Ad uno sguardo d’assieme, è un panorama che ad un fiero torquemada come me che mette tristezza e paura. Ma c’è di peggio. Il peggio è che anche qui, come per la reperibilità a tutti i costi, ci siamo del tutto assuefatti, convinti che sia giusto, normale, ovvio comportarci come i macachi di Gibilterra.
E invece no, non è normale manco per il cazzo, e ve lo posso certificare su una pergamena con tanto di sigillo e cornice che poi potete appendervi in camera: non è normale manco per il cazzo!
Ma in tutto questo, tu? mi direte. Paperoga e il cellulare?
Dopo una decina d’anni ho imparato a tenerlo sempre acceso. Ma la suoneria è in funzione solo quando sono in luoghi aperti oppure a casa. Ho la fortuna di non portare con me borsette, borselli o marsupi, e quindi avendolo sempre in tasca ne sento l’erotico tremore in zona inguinale. Odio che mi squilli il cellulare in pubblico. Odio parlare davanti a qualcuno che conosco, figuriamoci in treno o in altri luoghi affollati. Quando qualcuno mi chiama in un luogo pieno di gente, tendo a parlare pianissimo finchè l’altro sbrocca e non mi manda a fare in culo. In certi posti, poi, la suoneria la tolgo sistematicamente: non solo al cinema o in biblioteca, ma anche nei musei o persino nelle librerie, o in tutti i luoghi in cui il silenzio vale qualcosa e vale la pena di essere conservato.
E non faccio tutto questo solo per rispetto o per vocazione all’invisibilità, ma soprattutto perché i cazzi miei sono e rimangono cazzi miei. Cosa ho fatto nella giornata, se sono stato in quel posto, cosa faccio nel week end, se ho pagato la bolletta, cosa penso del bunga bunga, come sono andate la analisi del sangue, per non parlare di come sto e di come vivo dentro, sono fatti che non ho voglia di condividere con alcun estraneo.
La gente che mi brulica attorno, tutti sti pensieri ha smesso di farseli. Semplicemente, come per un mucchio di altre cose, la gente fa il cazzo che gli pare, crede di non dover rendere conto di nulla e crede che ogni suo comportamento sia normale e debba essere giustificato a priori.
Io non mollo. Non ho alcuna pietà contro qualunque tipo di maleducazione, e il timore di ritrovarmi da solo a fare il moralista non mi ha mai frenato. La gente continui pure a rincoglionirsi regredendo, peggiori pure ogni giorno il suo modo di relazionarsi con l’altro, continui in tutto questo ad autoassolversi.
La mia quotidiana guerra contro le “minima immoralia” di battiatesca memoria è persa in partenza. Ma è da sempre gustoso combatterla.