Eccellente direttore della fotografia oltre che complice del primo Tarantino (sue le luci ricercatissime di Le Iene, Pulp Fiction e Four Rooms) il polacco Sekula affronta con Hypercube la sua seconda prova registica, all’insegna di un’estetica assai differente rispetto a quella del capostipite di Vincenzo Natali (girato nel lontano 1997) e più vicina ai territori impervi della videoarte più concettuale.
“Otto estranei si trovano catapultati in una sorta di prigione costituita da stanze cubiche, e nessuno di loro ricorda come è finito là dentro. Presto scopriranno di trovarsi in una specie di “quarta” dimensione dove nessuna legge fisica è applicabile, dovranno scoprire il segreto dell’ipercubo per poter sopravvivere…”
Stesso gioco e stesse dinamiche, con il valore aggiunto delle realtà parallele, che sembrano progressivamente accartocciarsi su se stesse. In prima istanza sembrerebbe celarsi questo dietro un prodotto di chiara natura derivativa, peraltro a basso budget. Al contrario, soffermandosi con più attenzione, si noterà come la ricerca formale travalichi costantemente i limiti intrinsechi del progetto, raggiungendo qualcosa che (purtroppo) nel primo capitolo riusciva solo in parte: deliziare l’occhio prima del cervello.
La trovata dei tesseratti – tratta dalle teorie sulla quadrimensionalità dello scrittore britannico Charles Howard Hinton – diviene un astuto pretesto narrativo per superare i confini di un prodotto dal respiro evidentemente corto, nei presupposti più adatto ai tempi di un cortometraggio autoconclusivo.
La sceneggiatura si fa quindi imprevedibilmente da parte, frammentandosi quasi subito in esili sottotrame, tutte indirizzate (solo e solamente) a raggiungere una precisa idea di messa in scena: sperimentale e concettuale, mutuata a piene mani dal mondo dell’arte digitale, propria di artisti e performer come Laurie Anderson, Bill Viola o Matthew Barney.
Sekula quindi non gira un sequel, bensì un’originale rilettura dell’opera di Natali, non limitandosi a moltiplicarne le dimensioni spazio-temporali ma amplificandone fortemente il respiro autoriale della confezione.
Comprensibile che Hypercube non piacque al grande pubblico (e ad oggi non ha conosciuto evidenti riabilitazioni), tuttavia è identificabile come un’opera davvero visionaria e personalissima che, seppur imperfetta, avrebbe meritato maggiore attenzione.
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