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Il divano rosso

Da Word3press

[Franz, mandami un po' di lettori, ché qui ci capitano solo i fan (pochi) o i detrattori (molti) della coppia Lennon-Ono..]

Oggi, arrivo dalla Psic, scendo alla fermata Paolo Uccello, che a me dà molto fastidio dover scendere a quella fermata, perché mi vergogno, perché sicuramente i ragazzini delle mediae, quando sentono dire *Paolo Uccello* ridono,
in più, a me Paolo Uccello non m’è mai garbato, era quasi metafisico, e voi pensate che i pittori del Rinascimento dovessero essere per forza i più realisti in assoluto, solo perché parevano disegnare benino, e invece non è così.
Dicevo. Arrivo dalla Psic,
in perfetto orario, perché ci tengo ad essere puntuale,
e mi apre un tale. Mi aspettavo lei, ma a volte c’è anche un suo collega, perché ci son ben DUE studi. Solo che uno è quasi sempre inutilizzato.
Si affaccia la mia Psic dalla sua stanza chiedendomi di aspettare nu poco.
Mi accomodo sul divano rosso. Di pelle umana, credo. Pelle di pellerossa. O forse pelle di uomo pallido opportunamente tinta. Davanti a me c’è sempre il fottuto tavolinetto basso di cristallo (in realtà è vetraccio, ma fa figo dire cristallo), al di sotto del ripiano ci sono le solite fottute riviste che nessuno legge. Il fuoco. Col solito omino angoscioso disegnato a matita. Costa otto euro, e voglio proprio vedere chi se la ciuccia, una rivista così.
Diversamente dalle altre volte, stavolta sul cristallo non gravano solamente un’atmosfera e il peso del cristallo stesso,
no,
stavolta c’è un grazioso quadratino di vetro opportunamente ondulato e reso concavo, a raccogliere una manciata di succose caramelle gommose.
Non ho fatto colazione, è mezzogiorno, lo stomaco comincia a dare segni d’impazienza.
Sarà giusto mangiare quelle caramelle?
Non è che magari son lì solo per figura e quindi non vanno toccate?
Non è che magari sono di plastica?
Me ne sbafo sei o sette. Nessuno mi vede.
Mi metto comoda, mi stravacco sul divano e mi stiracchio.
Addirittura esploro, vado a ficcanasare in bagno.
Suonano il campanello.
Entra un giovinotto, paziente dello psic della porta accanto.
Faccio capolino dal bagno, per vederlo e per farmi vedere.
Infatti, mentre si spoglia, mi guarda.
Si spoglia nel senso di si toglie cappotto e sciarpa, eh, niente di più. Ci mancherebbe altro.
Oddio, in effetti non so mica se guardasse effettivamente me, perché io senza occhiali ho un quarto di decimo in meno da una parte e tre quarti in meno dall’altra.
Comunque sia, il suo consulente mi chiude la porta sul muso lasciandomi di nuovo al mio divano rosso.
Cerco di origliare, anche se non si potrebbe.
E non capto granché.
La tipa davanti a me, quella che occupa la mia Psic prima di me, quella sì, la sento.
Francamente non capisco che problemi abbia, perché mi sembra una persona normalissima.
Non è nemmeno affetta da timidità. Non è scorbutica come me.
Parla con la Psic come se fossero amiche. Ridacchia, scherza.
Con lei ha una familiarità a me estranea.
Sembra simpatica, non saprei nemmeno dire che età abbia. Forse è più piccola di me.
Passa e mi saluta.
E’ il mio turno. Entro e noto la nuova tenda della finestra. Uguale a quelle che ho io a casa. Made in Ikea.
Intanto mi chiedo se la tipa davanti a me abbia mai pensato qualcosa di me. Qualunque cosa.
Idem per l’altro tizio chez l’altro psic.
Si potrebbe metter su una combriccola di disturbati mentali.

Avete ascoltato Vite che si incrociano (?) nella saletta d’aspetto di uno studio di psic.



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