Il sorbettaio (o subbrettaro che dir si voglia) era il gelataio ambulante, specialista in sorbetti.
Francesco Mastriani ne ha lasciato una colorita descrizione: ‘o subbrettaro avanzava nella calura estiva con un secchio da pozzo per lavare i bicchieri, un portabicchieri a scompartimenti, un recipiente di legno con la neve per raffreddare la pasta aromatizzata contenuta nella subbrettera, un cilindro di stagno con il coperchio argenteo. I più fortunati si concedevano il lusso di avere un carrettino.
Il sorbetto, preparato ad arte, veniva offerto con la punta ritta, come un cono rovesciato: al culmine e sui fianchi della gelida montagnella i sorbettieri più creativi aggiungevano, specie quando si trovano a prepararlo a stranieri, striature di sciroppo rosso per rappresentare il Vesuvio in eruzione.
Racconta di un subbrettaro anche Gaetano Torelli nel 1847. Lo incrociò allo Spirito Santo, indossava un farsetto e un grembiule pulito ed un cappello di paglia per ripararsi dal sole.
Tra i suoi attrezzi una dozzina di bottiglie con sciroppi di vari colori e spesso una brocca per la limonata.
Ai tempi in cui questo venditore girava per i quartieri di Napoli un sorbetto costava mezzo soldo. Famosi erano i gelati e i sorbetti di Vito Pinto a Largo Carità di cui era golosissimo Giacomo Leopardi, ne mangiava così tanti che gli altri avventori lo deridevano, costringendo Antonio Ranieri ad intervenire.
Nel secondo dopoguerra, invece, i subrettari avanzavano su carrettini a pedale, particolarissimi, forse inventati da Vincenzo Bottini, un napoletano sfollato a Ottaviano nei mesi delle bombe.
Le voci conservate nella nostalgica memoria degli avi: «Provala ‘sta surbetta! Io sultanto ne tengo ‘a ricetta! Provala! Provala!» (con un coro di scugnizzi «Provala! Provala!»). Oppure: «’A grotta d’a neve, vih che surbette!». Ancora: un ambizioso «M’ha chiammato pure ‘o cardinale» e un ironico «te fa cade’ ‘e diente». Il grido più antico: «Oh trummunata fresca». Il più moderno: «Gelatini americaaani».
Infine a ricordare la dolce “surbetta”, alcuni versi di una poesia di Raffaele Chiaruzzi.
“’Sta vocca sapurita, liscia e ‘nfosa / pe’ ‘sta surbetta ‘e Pasca “ammanticata” / ‘ncopp’ ‘a ‘sta vocca mia vo’ sta azzeccata / e nu minuto ferma nun se sta”.