di Martina Vacca
Nell’era del multiculturalismo e della globalizzazione, l’internazionalizzazione delle imprese e l’intercettazione dell’evoluzione dei mercati strategici costituiscono una prassi che accomuna ormai tutti gli attori del mercato globale. È in Africa, più precisamente nell’area Subsahariana, che gli attori internazionali pubblici e privati puntano la propria lente d’ingrandimento, ritenendola terra di business e dalle grandi opportunità economiche.
Ed è proprio nello spazio del termine “opportunità” – che lascia presagire prospettive ampie e variegate – che ormai da qualche tempo si è aperto un dibattito legato ai tanti dilemmi posti dalla globalizzazione. A contrapporsi due visioni: una che ritiene la presenza delle multinazionali in Africa come un forte impulso allo sviluppo di Paesi e popolazioni e l’altra, più diffidente e pessimista, che tende ad esecrare nazioni ed investitori stranieri considerandoli alla stregua di usurpatori di terre e diritti.
Mettendo da parte gli aspetti generali riguardanti il tema degli investimenti nell’Africa Subsahariana, si vuole in questa sede richiamare l’attenzione su uno dei settori che in quei territori è in forte espansione – l’agricoltura – e sull’influenza che giocano gli attori esterni in un’area economicamente strategica per quel che riguarda una dimensione di business che, secondo le previsioni della Banca Mondiale, darà luogo ad un giro d’affari di 1.000 miliardi di dollari entro il 2030.
L’area geografica dell’Africa Subsahariana presenta Paesi con economie diversamente sviluppate, dove la ricchezza derivante da fonti naturali, la sostanziale stabilità politica (eccezion fatta per gli Stati della fascia centro-equatoriale), una classe media emergente e la propensione all’utilizzo delle nuove tecnologie sembrano aver allontanato lo scetticismo diffuso che agli inizi del ventesimo secolo non lasciava spazio a grandi aspettative, data anche la diffusa presenza di guerre, epidemie e carestie in molti territori. Nigeria e Sudafrica, che attualmente risultano le prime economie del Continente, non sono le uniche ad aver contribuito alla crescita regionale dell’Africa Subsahariana; anche Mozambico, Angola e Ghana, infatti, hanno concorso a produrre un incremento positivo del PIL, che si è attestato al 4,7% medio annuo tra il 2000 e il 2012.
Tassi di crescita a confronto – Fonte: Banca Mondiale, World Development IndicatorsPur trattandosi di un contesto che continua ad essere afflitto da tensioni sociali e carenza di infrastrutture, l’Africa Subsahariana detiene il 60% delle terre ancora non coltivate dell’intero globo e l’agricoltura assorbe l’80% della forza lavoro. Questa zona del mondo, inoltre, utilizza solo il 2% delle proprie risorse idriche rinnovabili comparate alla media mondiale del 5% e le perdite post-raccolto risultano del 15-20% rispetto al totale, aggravate dalla persistenza di obsoleti sistemi per la conservazione. Il settore agro-alimentare svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo economico, contribuendo a una parte importante del PIL in quell’area dove l’agricoltura rappresenta il 30% della produzione del continente e il 70% dell’occupazione. Nonostante le grandi potenzialità, il settore agro-alimentare locale deve affrontare numerose sfide: in molti Paesi, la maggior parte delle colture sono prodotte da piccole imprese agricole con tecnologie e sistemi di meccanizzazione scarsi e a capacità limitata, con un conseguente scarso rendimento. La carenza di infrastrutture, parallelamente alla frammentazione dei mercati e al controllo dei prezzi, risultano così un ostacolo alla produzione. Molti dei beni agricoli prodotti nella regione, come il mais, il riso e l’olio di palma, non sono competitivi a livello globale o hanno bassi margini di profitto. Se, da un lato, la volatilità dei prezzi delle materie prime incarna una sfida sempre crescente, dall’altro la sostenibilità ambientale resta un tema chiave nella gestione del settore agricolo.
In questo contesto lo sviluppo dell’agri-business rappresenta una realtà politica attraente sia per le piccole e medie imprese (PMI) che scelgono di investire in questi territori, sia per i Paesi africani che da un lato provano ad intercettare gli investimenti diretti esteri (IDE), dall’altro puntano a creare un modello di sostenibilità per l’agricoltura locale. Gli organismi internazionali come l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (UNIDO) forniscono supporto e assistenza ai Paesi Subsahariani, promuovendo progetti specifici nell’agro-industria e per la sicurezza alimentare ed incentivando l’utilizzo di tecnologie per migliorare i sistemi di qualità e l’igiene alimentare. Il Mozambico, ad esempio, ha promosso misure per la sicurezza alimentare solo dopo la guerra civile e ha cercato di investire risorse nell’agro-alimentare per consolidare le esportazioni soprattutto di materie prime (riso, mais, canna da zucchero e cotone) verso l’Asia e il Medio Oriente, anche attraverso un nuovo approccio di filiera che tiene conto, peraltro, della sostenibilità dei prodotti. In Senegal, invece, sono attivi alcuni progetti di modernizzazione nell’industria del packaging, in funzione di una migliore protezione degli alimenti (in particolare quelli ittici), dalla contaminazione chimica, dall’ossigeno e dalla luce.
Proprio in relazione al packaging dei prodotti, una delle iniziative più recenti, che testimonia gli interessi delle PMI in Africa Subsahariana si è tenuta durante Afripack 2014. Organizzata da Ipack-Ima, in joint venture con la statunitense PMMI e in partnership con UNIDO, Comunità dell’Africa Orientale (EAC) e Ministero dell’Industrializzazione e dello Sviluppo d’Impresa del governo del Kenya, Afripack è la fiera dedicata alle economie emergenti sulle tecnologie e il processing, packaging e converting dei materiali, svoltasi dal 9 al 12 settembre 2014 a Nairobi. Un evento, questo, che ha registrato oltre 130 espositori, fra cui 20 aziende italiane, tra le quali l’ENEA e l’Agenzia Nazionale per la Ricerca Tecnologica. Proprio quest’ultima, in vista dell’Expo di Milano 2015 e alla ricerca di un trait d’union nella promozione dell’agricoltura sostenibile in Africa Subsahariana, ha partecipato in qualità di ente specializzato nelle tecnologie per l’agri-food e nei processi riguardanti il “ciclo di vita” di un prodotto, nonché nel recupero eco-sostenibile dei prodotti con conseguente valorizzazione. In questi processi si collocano le imprese italiane, le quali all’interno dei sistemi di processing and packaging, registrano fama internazionale grazie alla elevata capacità tecnologica, che le rende protagoniste di progetti esemplari di sviluppo del concetto di filiera alimentare. La flessibilità delle tecnologie italiane, che consiste in un facile adattamento sia alle produzioni industriali che a quelle artigianali, conferma l’esperienza e l’eccellenza del made in Italy note in tutto il mondo.
Nel settore tecnologico l’Expo 2015 costituirà per l’Italia una valida vetrina per la presentazione del suo ventaglio di offerte, nel corso di una manifestazione in cui anche l’Africa sarà presente in maniera attiva, all’interno di un complesso fieristico articolato ed innovativo che si snoderà attorno al grande topic: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Questi temi sono molto sensibili e apprezzati in particolare dalle nazioni africane alla ricerca di una propria strada verso uno sviluppo sostenibile. Tra le nazioni subsahariane, ad esempio, l’Angola sarà presente all’Expo con uno spazio di 2.000 m2 realizzato con materiali eco-sostenibili, mentre Tanzania e Zimbawe domineranno l’area dedicata ai tuberi e ai cereali. Il Ghana, invece, importante produttore di cacao, ma carente di impianti che ne permettano lo sviluppo della produzione e la conservazione, parteciperà alla grande esposizione nella sfera della promozione di investimenti in impianti di trasformazione locali.
Pur nella considerazione e nella convinzione che il progresso tecnico costituisca una forza motrice al cambiamento e alla trasformazione degli assetti economici – in particolare del settore agricolo e dell’agri-business – non possono essere ignorate le difficoltà e le contraddizioni di un’area geografica, in cui spesso gli investitori esteri – privati o pubblici – tralasciano i principi dell’eco-compatibilità e della sostenibilità ambientale favorendo piuttosto lo sviluppo di modelli discutibili come il land grabbing. Letteralmente “accaparramento della terra”, il land grabbing è una pratica consistente nell’acquisizione – attraverso accordi bilaterali con i governi locali – di grandi distese di terreni e delle risorse (alimentari e idriche) in esse contenute. Tale fenomeno, divenuto ormai una realtà consolidata, veniva definito nel 2011 in uno studio dell’International Land Coalition come una versione moderna del colonialismo [1]: una rivisitazione commerciale e sociale che può creare scompensi e deficit per i popoli e i Paesi oggetto del fenomeno. Se in passato sono stati oro, idrocarburi e risorse minerarie ad essere un fattore di instabilità, oggi acqua e mangimi possono divenire nuovi fattori di incertezza nella geopolitica internazionale [2].
Senza entrare nel merito della questione “terreni” in Africa, bisogna però tener presente che il Continente ha un lungo trascorso di espropriazioni predatorie e legislazioni incerte che hanno favorito lo sviluppo di fenomeni legali ma dai risvolti potenzialmente pericolosi per i delicati equilibri socio-economici interni ai Paesi. A causa della precarietà di un sistema ancora basato su norme consuetudinarie spesso non codificate e riconosciute dagli accordi internazionali e privo di garanzie dei diritti fondiari, molti terreni vengono considerati “di nessuno”, ma spesso si tratta di terre coltivate da generazioni, che perciò diventano oggetto di rivendicazioni locali anche piuttosto forti. È proprio in quest’ottica che il sistema internazionale e in particolare la FAO hanno adottato un codice di condotta per regolamentare le azioni di acquisto dei terreni nell’ambito della tutela dei diritti umani.
Tutto ciò dovrebbe essere inteso a sviluppare una sana cooperazione, che nel settore dell’agri-business come in altri, costituisce un valore aggiunto e un passo concreto verso la modernizzazione per i popoli africani coinvolti, creando posti di lavoro, concorrendo ad una equa distribuzione della ricchezza prodotta, senza perdere mai di vista la conservazione della biodiversità.
Sull’industrializzazione in Africa Subsahariana e in particolare sullo sviluppo del settore dell’agri-business, restano aperti molti interrogativi su quanto è stato avviato fino ad oggi, necessari anche per comprendere se quel continente, nonostante rimangano aperte fratture secolari, possa altresì rappresentare un valido campo di promozione e di sviluppo dei sistemi dell’innovazione.
La glocalization nel settore dell’agri-business, intesa come adattamento delle imprese a tradizioni, culture, leggi e livelli di sviluppo economico diversi, esige in Africa una maggiore attenzione ai fragili assetti politico-sociali e territoriali.
Se è verso “Mamma Africa” che il richiamo degli investitori europei si fa sempre più forte, la rivoluzione tecnologica in atto non può non tenere conto dell’ordine delle priorità e della necessità di porre al vertice la tutela dei diritti fondamentali dei popoli e dell’ambiente. È dunque questa la sfida più forte che gli investitori stranieri sono chiamati ad affrontare.
* Martina Vacca è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Bologna)
[1] Michael Ochieng ODHIAMBO, Commercial pressures on land in Africa: A regional overview of opportunities, challenges, and impacts, in “International Land Coalition”, Nakuru, April, 2011.
[2] Lester BROWN, The New Geopolitcs of Food, in “Foreign Policy”, April 25, 2011.
Photo credits: USAID Africa Bureau
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