di Michele Forastiere*
*insegnante di matematica e fisica in un liceo scientifico.
“Dove hai preso quegli occhioni?”. Stavolta parliamo di occhi. La frase è il titolo di un articolo in cui Richard Dawkins tenta di minimizzare il famoso problema dell’evoluzione dell’occhio.
In realtà, la questione dell’occhio nasce insieme alla teoria dell’evoluzione. Ne “L’origine delle specie” Darwin afferma infatti: «Supporre che l’occhio, con tutti i suoi inimitabili meccanismi [...], si possa essere formato per mezzo della selezione naturale, sembra, lo confesso liberamente, assurdo al massimo grado. Tuttavia la ragione mi dice che, se si potesse dimostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio perfetto e complesso a uno molto imperfetto e semplice, ogni gradino essendo utile al suo possessore [...], allora la difficoltà di credere che un occhio perfetto e complesso si possa formare mediante la selezione naturale, sebbene insuperabile dalla nostra immaginazione, potrebbe a stento ritenersi reale». Va detto che il problema dell’individuazione dei suddetti gradini è sempre apparso particolarmente tenace.
Il primo tentativo apparentemente efficace di spiegazione gradualistica darwiniana è del 1994: si tratta del famoso lavoro di Nilsson e Pelger “A pessimistic estimate of the time required for an eye to evolve“, al quale fa entusiasticamente riferimento Dawkins nell’articolo citato. L’ipotesi si può riassumere più o meno come segue:
1) un occhio imperfetto e semplice è costituito da uno strato di cellule sensibili alla luce, grazie alle quali l’animale è capace di dirigersi verso la direzione generica della fonte di luce.
2) l’evoluzione comincia con l’”insaccamento” di questo strato in una specie di pozzetto semisferico;
3) quando il pozzetto è diventato abbastanza profondo, appare all’ingresso della cavità un diaframma circolare che va progressivamente restringendosi;
4) nell’incavo, già pieno di una sostanza trasparente, si forma gradualmente una zona di densità più elevata che agisce da lente.
E così, sembrerebbe proprio che si possa arrivare a un occhio “perfetto e complesso” attraverso una serie di piccole variazioni, a partire da un occhio “imperfetto e semplice”. Oltretutto, secondo gli autori la transizione non richiederebbe più di 400.000 anni! Non c’è da stupirsi che questa clamorosa affermazione abbia suscitato tanto entusiasmo nei circoli ultra-darwinisti. D’altra parte, purtroppo per questi ultimi, non è difficile dimostrare che essa è quanto meno un po’ avventata. Infatti, la catena evolutiva descritta nei passaggi precedenti non è affatto graduale e continua, dal momento che i passaggi 2 → 3 e 3 → 4 non corrispondono a minime modificazioni di una stessa caratteristica (la forma del “proto-globo oculare”, per intendersi), ma comportano l’”invenzione” di due specifiche strutture organiche del tutto indipendenti, la “proto-pupilla” e il “proto-cristallino”.
Insomma, si capisce che è richiesta l’immissione saltuaria di nuova informazione, ovvero la comparsa casuale di novità impreviste e non implicite nel patrimonio genetico preesistente. Di conseguenza, nessuna teoria può essere in grado di prevederne la tempistica.
C’è poi, nella questione dell’evoluzione degli organi complessi, un importante fattore di cui tenere conto: ed è quello della “larghezza del setaccio”. Mi spiego: la selezione naturale darwiniana non è in grado di distinguere tra una mutazione che porta alla formazione di un organo complesso e una che semplicemente favorisce la sopravvivenza del singolo animale; perciò, essa costituisce un “setaccio” troppo largo: esistono infatti troppe modalità alternative di sopravvivenza, che non sono – invariabilmente o necessariamente – le migliori. Facciamo un esempio: prendiamo il caso di un’ipotetica specie acquatica formata da erbivori. Supponiamo che tutti gli individui della specie stiano per passare dalla fase 3 alla fase 4: dunque hanno una struttura oculare ottimizzata per funzionare senza lente (il “proto-cristallino”) e sono – per così dire – “in attesa” che una mutazione casuale la faccia comparire. Visto, però, che al Caso non si comanda, potrebbe capitare che nell’ambito della specie compaiano due gruppi mutanti: uno, finalmente dotato di “proto-cristallino”; l’altro, ancora fornito del vecchio modello di occhio – ma leggermente più prolifico. I due gruppi vengono mangiati dagli stessi carnivori e sono in competizione per le stesse risorse alimentari. Chi può dire, perciò, quale di loro prevarrà? La selezione naturale non riesce, infatti, a distinguere la caratteristica veramente migliore sul lungo termine (un occhio dotato di cristallino) da quella che permette solo all’animale di avere una discendenza più numerosa. Infatti, un occhio non ancora completamente evoluto non è necessariamente vantaggioso per il suo possessore: se l’animale non riesce ad adattare l’apertura a condizioni di luce variabile, risulta cieco a tutti gli effetti quando, per esempio, l’illuminazione diventa scarsa… insomma, potrebbe bastare il passaggio frequente di nuvole per mandare al Creatore tutte quelle speranzose bestioline con occhioni tanto promettenti, e decretare invece il successo dei poveri parenti semi-ciechi, ma più fecondi di loro.
Ad ogni modo, nessuno considera ancora chiusa la questione dell’occhio. È appena dello scorso giugno un articolo di Trevor D. Lamb in cui si dichiara baldanzosamente che «ormai gli scienziati hanno una chiara visione di come sia apparso il nostro occhio notoriamente complesso». In effetti, questo lavoro non aggiunge granché alla problematica in questione (cfr. www.evolutionnews.org/2011/06/). Oltretutto, ho trovato molto divertente la seguente affermazione di Lamb: «I risultati indicano che il nostro genere di occhio [...] si formò in meno di 100 milioni di anni, evolvendo da un semplice sensore di luce [...] a partire da 600 milioni di anni fa». Meno di cento milioni di anni? Altro che i 400.000 anni di Nilsson e Pelger, allora! Del resto, se pensiamo che in un arco di tempo molto inferiore – forse lungo soli dieci milioni di anni sarebbero apparsi tutti i piani corporei animali conosciuti… ci rendiamo conto che, probabilmente, c’è ancora una volta qualcosa che non torna nel ragionamento gradualistico darwiniano. Con buona pace di Dawkins e seguaci.