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C'è chi vorrebbe che queste uscite dei leghisti venissero sbrigativamente derubricate a battute da Bar Sport, è invece della somma importanza prenderle in considerazione molto seriamente, visto che a pronunciarle sono esponenti politici di un partito al governo fino a pochi mesi fa e che pretende di partecipare a pieno titolo alla vita democratica di questo paese. Perché le parole contano, e non solo perché ledono l'immagine della ministra o istigano addirittura a commettere un reato. Ma perché, come a rilevato anche Gloria Origgi, plasmano (letteralmente) lo spazio della politica.
Lo spazio della politica è uno spazio delimitato dalle parole. È con le parole, con il linguaggio, che si definiscono i confini della scena politica, relegando fuori da essa tutto ciò che è osceno, indicibile, tabù. Cartelli come “Qui non possono entrare cani ed ebrei” sono diventati osceni dopo la Shoa, mentre nel dopoguerra erano molto diffusi nel Nord Italia annunci di affitti vietati ai meridionali. È proprio così, nel gioco di parole ammesse e parole indicibili, che si crea lo spazio del discorso pubblico e si modificano continuamente i suoi confini.
La lotta politica è anche lotta per mettere al bando certe parole e per dare piena cittadinanza ad altre. Perché le parole si portano appresso significati, storie, valori, ideali e, infine, diritti. Chi insiste, per esempio, perché non si usi la parola “clandestino” lo fa perché sa che eliminare quella parola dalla scena significherebbe avere di fronte un uomo (o una donna) alla ricerca di una vita migliore, e chiudere un uomo (o una donna) innocente dentro una vera e propria prigione, come i Centri di identificazione ed espulsione, sarebbe molto più difficile che chiuderci un “clandestino”. E non per niente “clandestino” è una parola molto amata invece da chi vorrebbe “filtrare” le masse umane che premono ai nostri confini. E così di questo passo, tutte le grandi battaglie per l'ampliamento dei diritti, sono anche (e forse prima di tutto) battaglie per dare legittimità ad alcune parole e rendere tabù altre.
E sorprende che un illustre politologo – che dovrebbe essere pienamente consapevole del peso delle parole nella storia e nella politica - come Giovanni Sartori, dalle pagine di uno dei più autorevoli quotidiani italiani colga l'occasione della dichiarazione razzista di Calderoli per attaccare la ministra Kyenge, colpevole a) di essere una oculista; b) di battersi per lo ius soli. Che la ministra, oltre a svolgere una professione, faccia anche politica da tempo e che proprio nella sua attività di militanza politica si sia occupata dei temi dell'integrazione pare non interessare a Sartori. Ma quel che più sorprende è la superficialità con cui viene attaccata l'idea dello ius soli: “L'integrazione – scrive Sartori - non ha niente a che fare con il luogo di nascita: è una fusione che avviene, o anche non avviene, tra un popolo e un altro”. E a sostegno di questa non proprio acutissima riflessione ricorda come “in Inghilterra, in Francia, e anche nelle democrazie nordiche vi sono figli di immigrati addirittura di seconda generazione (tutti debitamente promossi a «cittadini» da tempo) che non si sentono per niente francesi o inglesi”. Bella scoperta. Che il solo riconoscimento formale della cittadinanza non sia una condizione sufficiente perché ci sia piena integrazione è lapalissiano. Ma altrettanto lapalissiano dovrebbe risultare che ne è una condizione necessaria.
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