L’impiegato, con un sorriso infastidito, allunga il braccio fuori dal gabbiotto, a chiudere il cancelletto smaltato di nero, modellato a steli e fiori dal decadente sapore liberty. Preme il tasto 4, e la porta dell’ascensore si chiude a fatica con un paio di singhiozzi; lui intanto congiunge le mani e guarda verso l’alto, come nei migliori clichè degli impiegati immobiliari. Gli osservo il collo per un pò, poi lascio cadere lo sguardo sulla moquette formica, fingendo anch’io di concentrarmi sul cigolìo cronico dell’apparecchio.
La vecchia occupa metà dello spazio. Il suo alito pesante è un’agonia.
Continuo ad ascoltare il rumore dell’ascensore, fin quando, con un sobbalzo, ci lascia sul quarto piano.
L’impiegato si affretta a sporgersi in avanti per aprirmi il cancello. Sento la vecchia sgomitare dietro di me, vorrebbe divincolarsi per precederci e fare gli onori di casa. Il ragazzo non le rivolge neppure lo sguardo, è disgustato da quest’accoglienza campagnola. Più sono trascurati, più deve faticare e fingere. “Eccoci qua”, esordisce in un tono allegro platealmente smentito dal suo colorito di cera e dalle sue palpebre pesanti che cercano le occhiaie scure. Si ferma compostamente alla destra di un portone anonimo, facendo un cenno elegante ma scocciato alla donna, affinchè ci faccia entrare. A piccoli passi affannati e zoppi la vecchia si porta a ridosso della porta e cerca le chiavi in un mazzo pesante e disordinato, ansiosa. Apre, spinge la porta, mi sorride a stento, tra le rughe sudate del faccione appassito. Di riflesso, accenno ad una smorfia impercettibile di fredda cortesia. La porta si apre con un colpo dall’altra parte, un guaìto e delle unghie che picchiettano rapide sulle mattonelle, scandendo una fulminea ritirata.
Sul volto della donna balena un attimo di dispiacere, che dissimula subito, indicandoci con una mano il corridoio, stretto e affollato di mobilia – specchi, attaccapanni, vecchi bauli, tappeti -. Seguo i due nella penombra di quel budello; una tristezza singolare, tra il nostalgico e il rassegnato, trasuda dal leggero velo di polvere che riveste l’arredamento, da quelle fessure tra cassapanche e mobili votate all’abbandono e alla negligenza. Sul fondo del corridoio si affacciano due porte, una marrone ocra e una dipinta di un bianco opaco, sgualcito e ripassato. Il ragazzo apre la porta bianca e, e io lo vedo. Il balcone. Entro velocemente, a passo sicuro. Annuisco a ciò che dice. Non rispondo mai. Mi credono muta. Non parlo mai. Non ne ho voglia. Guardo attraverso il vetro. Vedo ciò che speravo di vedere. Non ascolto più ciò che si dice. Un omaccione si affaccia sulla soglia della camera, in canottiera di lana, e fa un cenno di saluto. Poi sparisce verso lo stesso angolo che aveva ingoiato il cane.
Un mese dopo sono lì. Dei vecchi proprietari è rimasta solo la polvere negli angoli e una paralitica tristezza che impregna i muri, assieme all’umidità e a un odore pregnante di frittura.
Sistemo i miei due scatoloni e la mia valigia nella stanza con la porta ocra. Poi entro nell’altra. E’ vuota. E’ grande. La attraverso scalza, tra sbuffi di polvere che si sollevano sotto i miei calzini. Raggiungo il balcone. Sposto la tenda. Lo osservo. Lui è lì, dietro il suo balcone. Mi ha vista. Mi aspettava. Resta in silenzio. Io resto in silenzio. Entrambi immobili. Ci osserviamo.
La sera ci sorprende lì, incorniciati da due patetiche pareti scrostate in un vicolo marcio.
Mai visto quadro più bello. Inspiro forte, tutta l’aria che posso, fino a sentirmi svenire.
Poi, più niente. Cala il buio.
E domani è un altro giorno. Un altro ancora.