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La controversia tra Turchia e Siria nella polveriera mediorientale

Creato il 27 giugno 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Maria Serra

La controversia tra Turchia e Siria nella polveriera mediorientale
Tutti la definiscono “casus belli”, ma difficilmente la tensione scoppiata tra Turchia e Siria a seguito dell’abbattimento del caccia F4 turco da parte siriana si tramuterà in un’azione armata nei confronti del regime di Damasco. Infatti, nonostante il ricorso di Ankara alla NATO sulla base dell’articolo 4 della Carta Atlantica – il quale permette a ciascuno degli Alleati di chiedere consultazioni quando ritiene che la propria integrità o indipendenza politica sia stata messa in pericolo – [1], esigenze di tipo strategico e valutazioni di carattere geopolitico indicano poche possibilità di un’escalation di tipo militare con un ricorso all’articolo 5 della stessa Carta [2]. Piuttosto, anche alla luce della generalità della condanna espressa dal Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica Anders Fogh Rasmussen in occasione del Vertice straordinario di ieri 26 giugno, sarebbe più plausibile aspettarsi un coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un’eventuale considerazione di misure a carattere sanzionatorio.

Infatti, benché le potenze occidentali condannino unanimemente l’atto siriano (“un atto inaccettabile” secondo il Segretario di Stato USA Hillary Clinton, “un’ulteriore azione gravissima ed inaccettabile” secondo il nostro Ministro Terzi) dichiarandosi pronte a sostenere la Turchia nella propria integrità territoriale, e benché lo stesso consesso NATO abbia ribadito la propria solidarietà nei confronti dell’Alleato membro dal 1952, la Siria rappresenta un caso geopolitico ben diverso da quello della Libia, per cui merita scelte ben ponderate.

La Siria, infatti, rappresenta un “limes geopolitico” non solo tra Occidente e Iran ma anche tra Occidente e Russia: da un lato, infatti, persiste una solida alleanza (che coinvolge anche Hezbollah in Libano) a carattere essenzialmente anti-israeliano e che implica anche considerazioni di tipo economico-energetico; dall’altro Mosca resta un partner strategico per Damasco verso cui esporta armi – come dimostra anche il recente episodio della nave cargo fermata a largo delle coste scozzesi contenente elicotteri Mi-25 e sistemi antiaerei – per un valore complessivo di oltre 12 miliardi di dollari: secondo lo Stockholm International Research Institute le esportazioni verso la Siria sono aumentate negli ultimi cinque anni del 72% e constano di sistemi di difesa aerea Buk-M2, missili navali Bastion-P, missili AT-14 Kornet, aerei MIG-29, tali che hanno permesso alla Siria di passare dal 68esimo al 33esimo posto nella classifica dei Paesi importatori di materiale bellico. Inoltre, l’abbattimento dell’F4 è avvenuto mediante il sistema missilistico antiaereo semovente a media gittata Pantsyr-S1, di fabbricazione russa. Il Cremlino, infine, controlla anche il porto di Tartous (ultimo baluardo dell’URSS nel Mediterraneo), nonché il sofisticato sistema radar – che copre anche aree a nord e a sud della Siria, oltre che parte di Israele e la base turca di İncirlik – che fa da contraltare a quello scudo antimissile della NATO il cui potenziamento è stato approvato nel recente Vertice di Chicago del 20 e 21 maggio e che prevede l’installazione di batterie e sistemi radar a ridosso dell’area di influenza russa (in Polonia, in Romania e in Turchia, a Malatya, proprio da dove è decollato il caccia abbattuto).

Ecco che un attacco militare nei confronti del regime di Assad più che con l’Iran, aprirebbe un conflitto con la Russia, un conflitto decisamente meno asimmetrico rispetto a quello a cui abbiamo assistito con la Libia. Ed è una prospettiva, questa, che né il sistema NATO (e soprattutto i Paesi europei provati economicamente e che tra l’altro tanto dipendono energeticamente dalla Russia) né Mosca – preoccupata sia per l’attuale debolezza dei suoi alleati nell’area, sia per una possibile diffusione del radicalismo islamico nelle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale e del Caucaso (leggasi Cecenia, Inguscezia e Daghestan), sia per i piani di riarmo e le dichiarazioni di Israele nei confronti dell’Iran – intendono al momento affrontare. Ed è alla luce di ciò che Vladimir Putin, in queste ore in visita nella regione mediorientale (Territori Palestinesi, Giordania e, appunto, Israele), tenterà di riportare i toni su un livello più diplomatico e premerà soprattutto affinché anche l’Iran venga coinvolto nei negoziati sull’ormai guerra civile siriana. Ciò, evidentemente, sortirebbe il duplice effetto di conferire a Teheran una nuova credibilità a livello regionale e di far riacquistare al Cremlino un partner in Medio Oriente meno osteggiato. La Russia dunque, che già nel corso del G20 di Los Cabos del 18 e 19 giugno aveva mostrato timidi segnali di apertura sul dossier Siria, e che già nei primi giorni di giugno aveva proposto una conferenza internazionale (al di fuori però del Consiglio di Sicurezza) per discutere di una transizione guidata del regime siriano (e non una sua rimozione forzata), dovrà fare un deciso passo in avanti per evitare una degenerazione delle tensioni.

La controversia sull’abbattimento del F4, non di meno, rivela alla Turchia l’illusorietà di quella “Zero problems policy toward neighbours” attraverso cui cui il Primo Ministro Tayyp Recep Erdoğan e il suo Ministro degli Esteri Ahmet Davatoğlu hanno tentato di riconferire al Paese quel ruolo di central country in uno spazio geopolitico che grosso modo ricalca quello del vecchio Impero Ottomano. Di fatti, con Cipro e Grecia i rapporti restano tesi da quasi mezzo secolo, con ricadute anche sulle relazioni con l’Unione Europea (Nicosia si appresta, tra l’altro, a detenere il suo primo semestre di presidenza dell’UE); con Israele la rottura risale al 2007, a causa prima dell’attacco non preannunciato al reattore siriano di Deir Ez-Zor e successivamente dell’incidente della Freedom Flotilla nelle acque internazionali del Mediterraneo; con l’Iraq le relazioni stanno rapidamente degenerando a causa della diversa posizione sulle recenti vicende del Vice Presidente iracheno sunnita Tariq al-Hashemi, rifugiatosi in Turchia a seguito delle accuse di violenze contro gli sciiti; per quanto riguarda la Siria, infine, oltre alla condanna per la repressione perpetuata nel corso dell’ultimo anno, Ankara accusa Damasco di supportare i militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e teme che gli stessi curdi siriani fomentino i curdi della Turchia da sempre alla ricerca di autonomia. Oltre al precedente storico per cui Hafez al-Assad aveva sostenuto i militanti del PKK finché le forze armate turche non decisero di avanzare minacciose fino al confine con la Siria, fin dall’inizio delle rivolte interne nel marzo dello scorso anno Assad figlio aveva concesso la cittadinanza siriana a numerose migliaia di curdi e a molti aveva demandato la sicurezza nelle regioni nord-orientali. Ed è dalle elezioni politiche turche del giugno 2011 che sono ripresi più violenti gli scontri tra i militanti curdi e le forze di sicurezza turche, in un’escalation di tensione che è culminata nello scontro dello scorso 19 giugno nell’avamposto turco di Yesiltas, nella regione di Hakkari, in cui sono morti 8 militari turchi e 10 ribelli curdi, più altri 16 feriti. Benché i dettagli della missione del F4 turco non siano ancora stati chiariti, non si può dunque escludere che, date le caratteristiche operative del velivolo, esso fosse impegnato in una missione di ricognizione atta ad individuare basi del PKK nell’area meridionale di Hatay, se non a mappare altri schieramenti governativi da indicare – e perciò da impedire nell’ottica siriana – agli insorti contro il governo centrale.

Per cui se le cosiddette “Primavere Arabe” da un lato hanno offerto ad Ankara la possibilità non solo di divenire un modello di ispirazione per i Paesi che intendono affrontare una transizione democratica, ma anche di porsi come interlocutore privilegiato con mondo occidentale e con mondo euro-asiatico nella gestione dell’agenda mediorientale, dall’altro hanno posto il governo di Erdoğan di fronte alla necessità di definire i contorni della sua politica estera. Così da zero problemi, alla lunga il Paese anatolico rischia sia di ritrovarsi accerchiata da una cintura di Paesi ostili, sia di venire coinvolta più di quanto già non lo fosse nella polveriera mediorientale, ritornando così – come in fondo un po’ sembra suonare anche dal riavvicinamento con la Francia dopo la crisi relativa alla questione del genocidio armeno – a prediligere la tradizionale partnership con l’Occidente.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

[1] <<The Parties will consult together whenever, in the opinion of any of them, the territorial integrity, political independence or security of any of the Parties is threatened>>.

[2] <<The Parties agree that an armed attack against one or more of them in Europe or North America shall be considered an attack against them all and consequently they agree that, if such an armed attack occurs, each of them, in exercise of the right of individual or collective self-defence recognised by Article 51 of the Charter of the United Nations, will assist the Party or Parties so attacked by taking forthwith, individually and in concert with the other Parties, such action as it deems necessary, including the use of armed force, to restore and maintain the security of the North Atlantic area. Any such armed attack and all measures taken as a result thereof shall immediately be reported to the Security Council. Such measures shall be terminated when the Security Council has taken the measures necessary to restore and maintain international peace and security>>. In questo link un commento sulla valenza del presente articolo.


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