Magazine Cultura
Recentemente, l'ennesima paralisi di inettitudine mi è stata inflitta da Jonathan Franzen, scrittore di culto tra gli alternativi che contano, autore di un superpremiato libro intitolato "Le Correzioni". Se uno scrittore piace a scrittori che piacciono, se DeLillo si prodiga in un tuo panegirico, se lettori di mezzo mondo ti acclamano come il miglior cantastorie a stelle e strisce, un po' di curiosità, suppongo sia legittima. Ecco io ero curiosa, perchè c'era già troppo clamore per i miei gusti.
Onestamente ho faticato ad arrivare al punto in cui mi sono fermata, quindi a pagina 285. Il libro ne conta 599. Semplicemente mi sono arenta e ho letto solo l'epilogo per capire se l'epopea familiare narrata culminasse con un suicidio di massa. Pare di no.
Franzen scrive molto bene, dote rara negli scrittori d'oggi, ed anche la storia della famiglia americana religiosa e repubblicana, aveva e ha degli spunti interessanti. Saranno tutte quelle correzioni, impartite dalla matriarca, ai tre figli, abbastanza irrisolti (ma và?\chissà perchè?), sarà l'ennesimo matrimonio inutilmente celebrato, sarà tutto quell'amore oppresso in nome del buon costume, sarà l'ennesima critica al perbenismo americano che non aggiunge nulla di nuovo ai fiumi di inchiostro versati dal '68 fino ad oggi, ma io a pagina 285 ho chiuso il libro.
Non saprei nemmeno cosa dirvi al riguardo, se non che fino a pagina 285 è un libro mediamente piacevole, con parole incastrate ad effetto e personaggi fastidiosamente tipicizzati. E' il classico libro che gioca a freccette con la cordiale fotografia dell'uomo medio-borghese. Non c'è nulla di male in questo, ho sempre avuto un debole per questo genere di storie, solo che fino ad ora ne ho lette di meglio.
Questo ruolo di martire del conformismo pensiereccio, eternamente schierata contro Holden e Le Correzioni, alimenta le mie esaltazioni onnistiche (parola assente nei vocabolari di italiano) tanto da trainarmi spietatamente il quel circolare gioco del bipolarismo, da cui non ne uscirò più. B.
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