di Redazione di BloGlobal
A pochi giorni dalle attese elezioni presidenziali del 14 giugno, la campagna elettorale iraniana – che si inscrive, come le recenti elezioni parlamentari, in un contesto politico nazionale polarizzato fra le due principali forze di regime, quella facente capo alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei e quella sostenitrice del Presidente Mahmoud Ahmadinejad – vede ancora colpi di scena. E’ delle ultime ore, infatti, la notizia del ritiro dalla competizione di uno dei cinque candidati conservatori, Gholam Ali Haddad Adel, ex Presidente del Parlamento (Majlis) dal 2005 al 2008, primo consigliere nonché consuocero di Alì Khamenei. Pur non indicando un proprio favorito, Adel ha comunque commentato la propria decisione invitando “il caro popolo iraniano a seguire strettamente i criteri dettati dalla Guida Suprema”, parole che chiarirebbero quindi l’appoggio a Saeed Jalili, uomo di fiducia di Khamenei, dal 2007 Segretario del Supremo Consiglio di Sicurezza Nazionale (SNC) e maggior accreditato a vincere. Al ritiro di Adel è seguito a ruota anche quello dell’ex Vice-presidente Mohammed Reza Aref, il quale avrebbe riferito all’agenzia Isna di aver ricevuto una telefonata da Mohammad Khatami che gli avrebbe detto che la sua candidatura “non era opportuna”. L’unico candidato di ispirazione moderata-riformista resta pertanto l’ex capo della sicurezza nazionale Hassan Rohani, in forte ascesa negli ultimi sondaggi, che ha tuttavia rischiato di essere escluso dalla contesa dopo che, nel corso di un dibattito televisivo, ha rivelato informazioni classificate come segrete dal Consiglio dei Guardiani sul programma nucleare iraniano. Ad ogni modo, più che scandali e rinunce, a rendere sostanzialmente tranquillo il regime degli Ayatollah sembra essere la previsione sulla bassa affluenza al voto che non dovrebbe andare oltre il 40%, pur significando, questo, un reale dato da cui partire per analizzare l’approvazione nei confronti di Khamenei. Da un lato la dura crisi economica, dall’altro la disaffezione politica provocata dall’assenza di candidati eterogenei, nonché soprattutto il timore che possa ripetersi quanto accaduto nel 2009, hanno provocato una certa disaffezione nella popolazione iraniana.
Dei candidati alla corsa presidenziale, delle variabili della sfida elettorale e del possibile esito delle urne ne abbiamo discusso con Farian Sabahi, docente di Storia dei Paesi Islamici presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino e giornalista pubblicista e collaboratrice delle pagine di cultura de Il Sole 24 Ore, del supplemento Io donna del Corriere della Sera, del settimanale Vanity Fair e del bimensile di politica internazionale East. E’ autrice di vari saggi tra cui “Storia dello Yemen”, “Storia dell’Iran 1890-2008”, “Un’estate a Teheran”, “Islam: l’identità inquieta d’Europa. Viaggio tra i musulmani d’Occidente” e “The Literacy Corps in Pahlavi Iran 1963-1979”.
Le elezioni presidenziali in Iran sono ormai alle porte e dei 686 candidati solo in 6, ormai, concorreranno per la tornata del 14 giugno: 4 di questi sono più o meno legati alla figura dell’ayatollah Khamenei, mentre gli altri due sono rappresentanti di forze moderate vicine all’ex Presidente Khatami. La candidatura forte di Saeed Jalili, capo delegazione dei negoziati sul nucleare iraniano, e degli altri 3 suoi concorrenti conservatori mostra ancora una volta la longa manus della Guida Suprema sulla vita politica iraniana. Secondo Lei sono elezioni già segnate o dobbiamo aspettarci qualche novità?
Saeed Jalili ha 47 anni, da sei è il capo dei negoziatori sul nucleare, ma dal 2007 ad oggi si è dimostrato un semplice messaggero, senza veri poteri. In campagna elettorale insiste sul ruolo della diaspora, che ha votato lasciando l’Iran, e sul fatto che minacce come le sanzioni internazionali possono diventare opportunità. Come gli altri candidati, Jalili non offre però soluzioni concrete ai problemi dei Paese, e questo rappresenta il problema maggiore. Il sistema politico della Repubblica islamica è particolarmente complesso, nel senso che ci sono numerose istituzioni, alcune elette dal popolo e altre no, che talvolta si sovrappongono obbligando a ricorrere all’arbitrato, esercitato dal Consiglio dell’interesse nazionale. Consiglio capitanato dal grande escluso di queste elezioni: Rafsanjani. Questo organo decide in base all’interesse nazionale, non in base ai principi islamici. È questa la chiave di lettura per comprendere la politica iraniana: il rial (la moneta locale) è stata svalutata del 40 percento contro al dollaro, l’inflazione è al 32 percento, la disoccupazione ufficialmente al 13 percento, la produzione di petrolio è crollata nel giro di un anno, a causa delle sanzioni internazionali, da 2,2 milioni di barili al giorno a soli 1,1 milioni. Un quadro allarmante, che obbliga la dirigenza iraniana – nei suoi diversi colori e sfumature – ad occuparsi in primis di economia.
Tra gli esclusi eccellenti figurano, appunto, il riformista Akbar Hashemi Rafsanjani e il braccio destro di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei. Di fatto queste estromissioni mostrano l’assenza di una vera opposizione interna e anche la definitiva fine del ciclo politico del Presidente uscente che, più che i pessimi risultati in economia, sembra pagare la sfida lanciata alla leadership religiosa già durante le scorse elezioni parlamentari. Quale significato si può dare a queste esclusioni eccellenti e cosa pensa del ridimensionamento di Ahmadinejad?
L’ex presidente Rafsanjani e Mashaei, consuocero e alleato di Ahmadinejad, sono stati esclusi dalla corsa presidenziale del 14 giugno. Eppure, la loro presenza avrebbe potuto invogliare più iraniani ad andare alle urne, e quindi avrebbe dato un poco più di legittimità a queste elezioni. Certo, per le autorità della repubblica islamica dell’Iran la legittimità è importante. Ma in questa fase la stabilità lo è ancora di più. Perché le divisioni interne sono sempre maggiori, e la crisi economica, dovuta anche alle sanzioni per il controverso programma nucleare, rappresenta una sfida non indifferente. Permettere a Rafsanjani e a Mashaei di candidarsi poteva però essere pericoloso, perché avrebbero messo in dubbio le decisioni del leader supremo in politica estera e nucleare. Un esempio? L’Iran sostiene la Siria di Assad, ma Rafsanjani ha dichiarato che il presidente siriano non ha grandi possibilità. E, al tempo stesso, Rafsanjani ha già messo in dubbio l’utilità del programma nucleare iraniano, oggetto di tante, troppe, sanzioni internazionali.
Alcuni esperti di Iran come Alireza Nader, analista della RAND Corporation, credono che le elezioni del 14 giugno saranno le meno democratiche mai tenute nel Paese. A suo parere c’è il rischio che queste elezioni possano essere segnate da nuovi brogli, come quelle del 2009 e, soprattutto, quale ruolo potranno avere i movimenti di protesta come quelli dell’Onda Verde?
Difficile classificare le elezioni iraniane per grado di democrazia, tenuto conto che la selezione dei candidati è sempre e comunque prerogativa del Consiglio dei Guardiani, composto da sei giuristi vicini al leader supremo. Il movimento verde? È stato decapitato: Mussavi e Karrubi sono agli arresti domiciliari da oltre due anni, e precisamente dal 14 febbraio 2011. Data in cui avevano chiesto l’autorizzazione per una dimostrazione a favore delle primavere arabe, dimostrazione che sarebbe ovviamente diventata pretesto per protestare. L’altro leader del movimento verde, l’ex presidente riformatore Mohammad Khatami, ha deciso di non presentarsi a queste elezioni. In questo contesto, difficile pensare ad ulteriori proteste, anche perché la durissima repressione del 2009 ha lasciato il segno negli iraniani. Resta da vedere quale sarà l’affluenza alle urne. È su questa che si giocherà la legittimità dei vertici della Repubblica islamica.
Photo Credit: al-Arabiya, aggiornato al 10.06.2013
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