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"Lettera a Léontine" di Raffaello Mastrolonardo

Creato il 13 luglio 2010 da Sulromanzo
Di Carlotta Susca
Raffaello Mastrolonardo e la sua "Lettera a Léontine"
Una recensione è una recensione è una recensione, rammentò il recensore, parafrasando Gertrude Stein. Serve per dire a chi non ha letto il libro se ne vale la pena o no, se quel testo merita le nostre ore limitate, la scelta che esclude le altre infinite possibilità di lettura nello stesso tempo. Eppure una recensione serve anche per riflettere sulle logiche editoriali e per dire che la pubblicità non è estranea ad un oggetto così poco commerciale (per i puristi) come il libro.
Con una fascetta gialla sulla seconda edizione (Tea), strillante “UN ROMANZO D’ESORDIO CHE È GIÀ DIVENTATO UN CASO EDITORIALE”, si è portati a credere di stare per leggere un testo che segni il periodo, caratterizzato da una scrittura innovativa, con tematiche appassionanti, prese di posizione provocatorie, o perlomeno che veicoli dei significati profondi. In libreria si è attratti dalle copertine, che inducono a leggere le quarte, le bandelle, per farsi conquistare e dunque acquistare, adottare quel libro e lasciare ancora in orfanotrofio altri. Il nostro tempo è limitato: il tempo della vita, il tempo della vita dedicato alla lettura. Non è una scelta leggera, il nostro bagaglio di informazioni si arricchisce di quei significati e non di altri: è una lotta fra copertine, una battaglia di titoli scalpitanti per attirare la tua attenzione, per imporsi nel tuo campo visivo, per convincerti che la scelta è giusta. E la fascetta strillante ti fornisce un motivo in più. Poi, per introdurre la scrittura di Mastrolonardo, si pensa: “Compriamo il libro?”, “Compriamo il libro!”.
È questo, in effetti, lo stile che percorre il testo, la ripetizione della stessa espressione interrogativa e poi affermativa, in un dialogo che non rappresenta l’accordo comune di due anime che si incontrano nelle intemperie della vita, la complicità di una coppia provvisoria e consapevole dell’errore del voler stare insieme. Non è questo che il dialogo esprime, ma la predominanza della voce narrante, la sua ingombrante presenza che cancella l’individualità di Léontine, pur protagonista del titolo ed ideale destinataria della Lettera.
Dallo stile al contenuto: il protagonista indiscusso, l’unico vero personaggio è Pierluigi/Pigi/Piero, e Léontine, pur così promettente come presenza, è banalmente l’amante, l’agente esterno della consapevolezza dell’infelicità di Pigi, della sua solitudine. L’argomento è la crisi di mezza età, non le apparizioni di una affascinante e misteriosa presenza femminile, una sfuggente musa ispiratrice della Lettera. Pigi è ovunque, e non ha bisogno di Léontine, anzi, il nome stesso della donna, che fa pensare al lettore ad una straniera intrigante, è scelto solo per dare la possibilità al narratore – e all’autore – di sfoggiare le conoscenze su De Nittis, di introdurre dottoralmente le proprie nozioni artistiche. Léontine come la musa di De Nittis, Léontine dai capelli rossi come la Danae di Klimt. Léontine che in realtà è, banalmente, Lea. Non un folletto sfuggente, imprendibile, ma una amante razionale incontrata sempre quando è impossibile incontrarsi per non lasciarsi.
Della lettera c’è poco, l’interlocutrice è assente e piuttosto si legge il monologo di un medico affermato ma infelice, ansioso di farsi applaudire per la propria abilità al pianoforte, di far ammutolire per la propria conoscenza artistica. Le citazioni sono sempre esplicite, non lasciano mai spazio al piacere del lettore di cogliere un riferimento accennato ma non spiegato (esempio: “Non pensare a Lea! Imperativo categorico, Immanuel Kant”. Nome e cognome, appunto). La modalità di rappresentazione di Lea, poi, è un abbassamento dello stile formulare omerico: la donna compare sempre accompagnata dal bagaglio di alcuni stilemi, mai completamente elogiativi. Occhi chiari, ma con rughe. Capelli ramati, ma di un ramato indefinito. Borsa da Mary Poppins. Seni piccoli, corpo slanciato, ma poi appesantito. Non la rendono più vera, meno ideale, queste descrizioni, solo più prosaica, da indefinibile metafora di una aspirazione all’amore quale era stata introdotta. 
Léontine, tu non esisti, non sei mai esistita, sei il frutto della mia fantasia”: sono le prime parole, nonché il biglietto da visita sulla quarta di copertina. Una metafora, ma complessa, si crede, una donna imprendibile: invece Léontine non esiste semplicemente perché è troppo reale per esaurire nella sua fisicità e nei suoi comportamenti il compito nella narrazione, non esiste perché è solo la cartina di tornasole della personalità del narratore, è solo un pretesto per il monologo di un morente. Non che ci sia qualcosa di ontologicamente sbagliato, in una trama di questo tipo, solo che il titolo è ingannevole, come le aspettative create dalla fascetta.

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