La velocità ha affascinato, ed in profondità, larghi settori della letteratura novecentesca. In un manifesto futurista del 1916, ad esempio, Filippo Tommaso Marinetti arrivava a parlare di una vera e propria “religione della velocità”, e ad indicare negli sportivi dei veri e propri “sacerdoti”: “L’ebbrezza delle grandi velocità in automobile non è che la gioia di sentirsi fusi con l’unica divinità. Gli sportsmen sono i primi catecumeni di questa religione”.
Non pare dunque strano notare che Roberto Roversi, che di scritture d’avanguardia se ne intendeva (fu promotore, insieme a Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti, della rivista “Officina”, che negli anni Cinquanta andava proponendo soluzioni letterarie neo-sperimentali), abbia scritto il testo di “Nuvolari” con accenti non troppo diversi, anche se certamente meno esaltati, da quelli di Marinetti. Perché in effetti in quella canzone la voce dell’indimenticabile Lucio Dalla mostra un Tazio Nuvolari che riesce a sfidare le leggi del destino (“c’è sempre un numero in più nel destino quando corre Nuvolari”; “con l’Alfa rossa fa quello che vuole / dentro al fuoco di cento saette”) e ad infiammare gli animi come se il suo passaggio fosse quello di un eroe di guerra (“quando passa Nuvolari ognuno sente il suo cuore vicino”).
La sua velocità non è quella di un grande professionista delle corse automobilistiche, ma pare essere piuttosto assimilabile ad un’eccezione nell’ordine naturale delle cose, che finisce per dar vita a scenari leggendari (“gli alberi della strada / strisciano sulla biada, / sui muri i cocci di bottiglia / si sciolgono come poltiglia, / tutta la polvere è spazzata via!”).
Del resto, il suo sprezzo del pericolo lo rende non solo una specie di eroe romantico che si lascia guidare più dall’impulso della passione che dal calcolo razionale delle possibilità (“corre se piove, corre dentro al sole, / tre più tre, per lui, fa sempre sette”), ma anche una vera e propria incarnazione delle speranze di felicità che, un tempo, si associavano alla rinascita della natura che si verifica in primavera (con al gente che attende il suo passaggio stendendosi sui prati e “finalmente quando sente il rumore / salta in piedi e lo saluta con la mano, / gli grida parole d’amore e lo guarda scomparire / come guarda un soldato a cavallo, / a cavallo del cielo d’aprile”).
Ma c’è anche l’altro volto di Tazio Nuvolari, nelle parole di Roberto Roversi. Perché, sì, “i suoi muscoli sono muscoli eccezionali”, ma alla fin fine “Nuvolari è basso di statura, / Nuvolari è al di sotto del normale”, ha una corporatura di “cinquanta chili d’ossa”, ed in seguito a un incidente stradale “lo raccolgono quasi spacciato”. C’è, insomma, la leggenda, ma immediatamente dopo (o addirittura in contemporanea) torna a spuntar fuori la realtà. Nuvolari non è giovane e bello come gli eroi dell’epica classica (“Si profilò Enea e rifulse allo splendore della luce, / simile a un dio il volto e le spalle”, scriveva Virgilio nel libro I dell’Eneide), ma “ha la maschera tagliente” (il volto appuntito) di un uomo qualsiasi, uno dei molti anti-eroi che hanno popolato l’immaginario della letteratura novecentesca. Anche quella di Nuvolari, dunque, è una leggenda, e come tutte le leggende non è vera. Ma d’altro canto – e questo pare essere il senso profondo della canzone – se fosse vera non sarebbe possibile immaginarla, e probabilmente non sarebbe stato nemmeno possibile dedicargli questi versi. Ed inoltre, se fosse vera, lo sport non sarebbe quel grande serbatoio di miti che, come sappiamo bene, consentono alla nostra mente di staccare per un attimo la spina dalla realtà.