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Capita in queste sere che profumano di zenzero e panni puliti e detersivo per pavimenti.Come una sinfonia d'orchestra che si leva mesta, all'unisono, ad un cenno di mani e capo del direttore, allo stesso modo noi che coviamo questa primavera fin dentro alle ossa, sembriamo pronti ad uscire dalla letargia (e liturgia) invernale alle prime timide avvisaglie di calore.
E' bastato che qualcuno soffiasse sul sole, scacciando la polvere di nuvole il minimo necessario per lasciare che ci accarezzasse quell'angolo di viso fuori dalla lana con cui le nostre sciarpe, le nostre vite, sono state intessute fino ad ora.
Giusto qualche ora, con la faccia appoggiata più vicina possibile al cielo.E sembra di stare sdraiati accanto a qualcuno, così addossati l'uno all'altro da non aver bisogno di tenere gli occhi aperti, lasciando che un miliardo di ciglia e piume ti scandaglino la guancia per darti la misura della distanza tra te e quella persona, tra te e il sole.
Parliamo, con l'aria Verdiana prodotta dalla lavatrice a fare da sottofondo melodico, la grancassa del rubinetto che perde a scandire il tempo inarrestabile, parliamo delle cose che non contano, che non siamo noi a contare loro ma loro a contare noi.
E di come i rigagnoli di fumo si annodano attorno al lampadario di questa cucina, si avviluppano alle ragnatele, intossicando i condomini che si danno a otto gambe levate.
Fumo, mentre accarezzo le foglie del tronchetto della felicità che mi siede di fronte. M. mescola uovo e farina nella ciotola gialla, sigaretta in bocca e nebbia negli occhi.
Ridiamo. Come direbbe mio padre, sembra l'otto di settembre. Le reni della primavera si sono inarcate fino a qui, dove pure la luce è poca nel mezzo di quest'appartamento avvinghiato a blocchi di cemento avari che paiono litigarsi tre centimetri di spazio aperto.
Ed M. l'ha ripulito in mezza giornata, cavando polvere persino dai pori occlusi e ciechi di cui è fatto.
Fissa i bicchieri rimirarsi dall'alto nel lago trasparente del lavello tirato a lucido, mentre la crepe si rapprende sul fuoco e lei accende l'ennesimo cilindro al veleno. L'aria un po' stanca ma soddisfatta, le mani arrossate; non mi guarda e dice "Siamo fatti di ciccia, col cuore di ferro ... Come sarebbe bello avere il cuore di ferro ... ".
Il termine ultimo per la revisione mi scade ad Aprile, dico io.Ridiamo. Di nuovo. Anche se mi pesa un po' il cuore dopo questa sua frase, uscita d'un fiato, con una leggerezza che non le appartiene e che non la sostiene.Pesa anche se non è di ferro, questo cuore sacro. A volte.Se la ride pure lui, spesso e volentieri, per fortuna.
Penso che un pugno sordo allo stomaco, certi giorni mutilati, sarebbe stato preferibile alle ammaccature insanabili.
E penso anche che va bene così, è bello così. Fulgido, di una luminosità che sfiora il dolore e il sublime insieme. Incastonato in grembo al petto, se ne sta protetto come nessun altro organo da grovigli di fili elettrici ad alta tensione e file di coltelli d'avorio.
Forse è impossibile toccarlo senza fare alcun danno.Forse è fatto apposta per essere scolpito, spremuto.Quante cose belle devono essere estratte, cercate, liberate, perfino rotte prima che il nettare della vita possa sgorgare.
Bello questo mio cuore sacro, bello sempre, anche quando cigola e la revisione è lì lì per scadere.
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