di Antonio Scarazzini
Articolo per LiquidLab – L’Italia e il mondo Nuovo (Firenze, 10 maggio 2012 h 10 – Polo delle Scienze Sociali Novoli)
I prezzi del petrolio in rialzo hanno generato nel 2011 un boom dell’interscambio fra Italia ed Arabia Saudita, peggiorando il saldo per il nostro Paese. Il “made in Italy” ed il modello PMI hanno comunque solide basi per rilanciare l’export e diventare protagonisti nei processi di riforma economica del regno saudita.
Rapporti economici bilaterali: saldo in rosso ma prospettive rosee per l’export italiano
Nel corso della missione di sistema del novembre 2010, la Presidente uscente di Confindustria Emma Marcegaglia e l’allora Ministro per le Attività Produttive Paolo Romani avevano fissato a 10 miliardi di euro la soglia di interscambio commerciale da raggiungere nei successivi tre anni. I dati ISTAT [1] indicano come, di fatto, tale soglia sia già stata superata nel corso del 2011, per un valore complessivo degli scambi pari a quasi 11 miliardi di euro; è meno incoraggiante, tuttavia, osservare che dietro all’incremento di valore nei rapporti commerciali risieda un vertiginoso aumento delle importazioni da parte italiana, cresciute tra 2010 e 2011 del 122,9 % da 3,2 a 7,2 miliardi.
Il vistoso peggioramento del saldo commerciale, salito in valore assoluto dai 560 milioni ai 3,4 miliardi, risente, infatti, dell’aumento del prezzo al barile del petrolio greggio, che pesa per oltre l’82% delle importazioni italiane dal regno dei Saud, che copre il 5,1% del fabbisogno italiano di petrolio: a fronte di un aumento in volume dell’86%, il greggio ha infatti totalizzato un incremento di valore negli scambi pari al 147%, neutralizzando ampiamente la buona performance dell’export italiano, in grado di recuperare il crollo del 2009 (-26,3%) con un +9,3% nel 2010 ed un incoraggiante +39,2% nel 2011 [2], nel corso del quale l’Italia ha destinato in Arabia Saudita beni e servizi per 3,7 miliardi di euro.
Interessante anche osservare la composizione merceologica delle esportazioni, che rispetto agli anni passati inizia a rivelare i primi segni di importante diversificazione. Il settore della meccanica è, infatti, da anni all’apice dell’export ed è in linea per recuperare, in valore assoluto, gli ottimi risultati del 2008: le categorie di macchinari di vario utilizzo [3] costituiscono complessivamente circa il 30% dei beni esportati, con valore in progresso del 37% rispetto al 2011 ma con una quota sul totale che è calata del 20% rispetto al 2008. Il 2011 ha visto infatti il boom dei prodotti derivanti da raffinazione del petrolio, +447% dal 2010 ad oltre 518 milioni di euro, che ora rappresentano il prodotto più esportato con una quota superiore al 13% dell’intero export. Aumenti significativi giungono anche dal comparto di motori e generatori (+105%, quota 3,7%), tubature e condotti (+115%, quota 3,6%) e dei mobili (+16%, quota 2,8%).
Serve comunque uno sforzo aggiuntivo per colmare il gap con gli altri partners commerciali, con l’Italia che detiene una quota del 3,6% del mercato saudita, dietro ad altri Paesi europei come Francia e Germania o a Paesi emergenti come Sud Corea o Brasile [4]. Una posizione rispecchiata peraltro anche dal basso livello di investimenti diretti esteri (IDE) da parte di imprese italiane, che nel 2009 valevano per il 2% dello stock di IDE attivi, quota venutasi a ridurre nell’anno successivo a fronte di un incremento dei flussi da altri Paesi, in particolare Francia, Germania e Regno Unito [5].
Perchè investire in Arabia Saudita?
Nell’area del Golfo, in particolare tra i Paesi membri della Gulf Cooperation Council (GCC, di cui fanno parte anche Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar), l’Arabia Saudita si conferma il secondo mercato di destinazione delle merci italiane dopo gli Emirati Arabi Uniti, con i quali è comunque intrattenuto un interscambio complessivo decisamente inferiore e di poco superiore ai 5,5 miliardi di euro. Il regno guidato dalla dinastia Al Saud è, secondo il World Investment Report 2011 dell’Unctad, ancora tra i primi venti Paesi al mondo destinatari di IDE, che secondo dati dell’Economist Intelligence Unit contano per il 6,7% del prodotto interno lordo: rispetto ai 32 miliardi di dollari ricevuti nel 2009, il flusso di 28 miliardi del 2010 piazza il Paese al dodicesimo posto [6] in questa speciale graduatoria (solo una posizione persa), di gran lunga al primo posto tra i Paesi dell’area mediorientale e dell’Asia Occidentale per flussi in entrata ed uscita [7]. L’ultimo Rapporto della Saudi Arabian General Investment Authority (SAGIA), l’autorità deputata al controllo degli investimenti esteri, lo stock di IDE attivi nel Paese ammonta a 170,4 miliardi di dollari, cui il governo saudita affianca ulteriori 178 miliardi per varie partecipazioni in joint-ventures.
Un trend in costante aumento nell’ultimo quinquennio (da uno stock di 33 miliardi nel 2005) dovuto in gran parte agli effetti della legge sugli investimenti esteri promulgata nel 2000 che permette ad imprese straniere di acquisire anche il 100% di imprese locali. Piazzata al dodicesimo posto nel ranking Doing Business 2012 della Banca Mondiale, l’Arabia Saudita ha saputo costruire nell’ultimo decennio un ambiente sempre consono alle esigenze degli investitori esteri: ne è prova il balzo di quattro posizioni sino al decimo posto nella classifica relativa all’avvio di un’attività d’impresa grazie alla riduzione del numero di procedure (3 per il 2012, erano 13 nel 2004) e dei giorni (5 rispetto ai 71 di otto anni prima) richiesti per l’avvio dell’attività, con una conseguente riduzione dei costi di avvio. L’informatizzazione dei servizi notarili ha consentito inoltre a Riyadh di primeggiare nel ranking relativo alla registrazione delle proprietà, mentre una tassazione del 14,5% sul reddito d’impresa costituisce un buon viatico per l’attrazione di capitale estero.
L’Italia ed il settore petrolifero: il rilancio parte da qui
Grazie al rialzo dei prezzi del petrolio e all’aumento della domanda mondiale di idrocarburi a seguito delle tensioni in Iran e nel Maghreb, il PIL dell’Arabia Saudita è cresciuto nel 2011 del 6,8%: l’enorme flusso di liquidità reso disponibile dalle maggiori esportazioni mette quindi i reggenti della dinastia Saud nella condizione di predisporre un futuro di riforme infrastrutturali e nel campo dei servizi. Proprio la SAGIA ha individuato una serie di ambiti prioritari e di grandi progetti cui va l’attenzione dei grandi gruppi esteri, compresi quelli italiani, da svilupparsi secondo le linee guida adottate per lo sviluppo delle economic cities, di cui BloGlobal si era occupato in una precedente analisi, per le quali Riyadh è pronta ad investire oltre 400 miliardi di dollari.
Ma quali sono i settori in cui la presenza italiana è attualmente più sensibile? Un recente articolo apparso sull’Economist, oltre ad evidenziare l’eccessiva dipendenza delle entrate statali dall’esportazione di idrocarburi (oltre il 35% del PIL), pone in risalto l’assoluta necessità di rispondere ad un aumento della domanda interna di energia del 78% tra 2000 e 2010, secondo a quello cinese. La monarchia di Riyadh è quindi pronta ad affrontare la riforma del settore energetico, prospettando una diversificazione delle fonti ed una maggiore efficienza nella produzione di energia elettrica con l’intento di raddoppiarla entro il 2020.
Per questo la SAGIA ha predisposto lo stanziamento di 90 miliardi di dollari per progetti legati a nuove centrali elettriche ed ad impianti di desalinizzazione, con un occhio di riguardo alle energie rinnovabili e ad un maggiore sfruttamento del gas naturale. Quest’ultimo settore sembra in realtà il meno promettente, malgrado i 50 miliardi ad esso destinati, a causa di prezzi attualmente troppo bassi per rendere conveniente l’avvio di nuove esplorazioni ed impianti: l’ENI, che nel 2003 avevo ottenuto una concessione nel sud-est del Regno saudita, ha infatti recentemente rinunciato all’esplorazione di nuovi siti come preventivato dalla joint venture EniRepsa creata con la spagnola Repsol.
Interessante invece lo sviluppo di nuovi impianti di raffinazione ed il miglioramento delle infrastrutture nel settore petrolifero: già dal 2001 Saipem è attiva tramite la sussidiaria Saudi Arabian Saipem in joint-venture con partner locali, in cui rientrano anche i recenti accordi per un potenziamento delle strutture off-shore nel giacimento di Manifa, su commessa della compagnia di bandiera Saudi Aramco, nel quale l’azienda del gruppo ENI era attiva sin dal 2008 per migliorare la capacità di produzione giornaliera. Dalla metà del 2013 dovrebbe invece entrare in attività l’impianto di raffinazione di Jubail, frutto delle commesse da 3 miliardi di dollari ottenute da Technip nel 2009 dalla stessa Aramco, in joint-venture con la francese Total. La stessa compagnia saudita ha affidato, sin dal 2003, a SnamProgetti la realizzazione di impianti di separazione e raffinazione a Khursaniyah, nell’ambito di un progetto valutato attorno ai 1,5 miliardi di dollari.
Technip è inoltre attiva anche nel settore petrolchimico, coinvolto in un programma di investimenti che nelle mire della SAGIA dovrebbe portare l’Arabia Saudita a coprire circa il 15% delle forniture mondiali di etilene e metanolo: la prima ha infatti ottenuto dalla Saudi Basic Industries Corporation (SABIC) un contratto di costruzione di un impianto di produzione di etilene nel complesso Yansab della città di Yanbu, per un valore di circa 2 miliardi di dollari. Nello stesso sito la Maire Tecnimont produce polipropilene in un impianto gestito da una joint venture in cui è socio di maggioranza con la Xenel, costruito sulla base di un contratto da 173 milioni di euro stipulato nel 2004. A febbraio l’azienda ha inoltre ottenuto dalla SABIC commesse per ulteriori 63 milioni per affiancare l’azienda saudita nei lavori presso il sito di Jubail, in cui il gruppo italiano era già attivo dal 2009 tramite accordi con la SIPCHEM per la produzione di etilene, propilene e polietilene [8]. Risale invece al 2006 la commessa da oltre un miliardo di dollari per impianti di polimeri presso Rabigh, in joint venture con la coreana Sumitomo.
Le prospettive per il futuro
I dati sulla presenza italiana in Arabia Saudita parlano di circa quaranta gruppi operanti sul territorio, attraverso filiali o joint venture con partner locali. La bandiera italiana, come si è visto, è tenuta alta grazie all’impegno di grandi gruppi attivi nei settori strategici dell’economia saudita e le prospettive di riforma degli stessi, consolidate da una grande disponibilità di capitali, lascia prospettare nuovi vantaggiosi contratti. L’Italia, inoltre, dovrà mostrare le capacità di rafforzare l’export per i propri prodotti manifatturieri, provenienti tanto dal comparto metalmeccanico quanto dal settore del lusso che trova da sempre nei settori più agiati della popolazione un sensibile apprezzamento. Ma l’elemento forse più interessante consiste nelle prospettive di progressiva privatizzazione dell’economia saudita – il cui PIL è strettamente legato al contributo governativo – in cui l’Italia può inserirsi come sponsor privilegiato del tessuto delle piccole medie-imprese, capaci di internazionalizzarsi e di esportare know-how anche tramite cooperazioni con partner locali, che favoriscono l’accesso al credito ed una maggiore protezione degli investimenti. Al Joint Business Council nato nel 2005, alla Camera di Commercio italo-araba e ad altri organi come la Saudi Italian Company for Development – oltre che ad un rinnovato appoggio governativo – spetterà ora il compito di saper trasmettere nel regno saudita il modello di “business made in Italy”.
* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)
[1] Fonte: ISTAT Data Warehouse – ICE [2] Variazioni su base annuale [3] (Altre macchine per impieghi speciali, macchine di impiego generale, altre macchine di impiego generale) [4] Rapporto Paese Congiunto MAE/ICE Arabia Saudita I° Semestre 2011 [5] Annual Report of FDI into Saudi Arabia 2011, http://wwwAnnual Report of FDI into Saudi Arabia 2011, Saudi Arabian General Investment Authority (SAGIA) [6] UNCTAD World Investment Report 2011 pag. 4 [7] UNCTAD World Investment Report 2011 pag. 52