Pescivendolo, ambulante e di banco. Il cronista di “Napoli e le sue costumanze”, 1840, descrisse uno spazio di trecento passi a Santa Lucia, con banchi quadrati e inclinati di legno, ogni specie di pesce, lanterne sospese alle pertiche, secchi colmi di ostriche del Fusaro: «Questa fila, questo mercato, è riparato inverso il mare da una tela sulla quale si legge il nome di ogni venditore, ed il numero progressivo che alla sua mobile officina venne applicato».
Alla vigilia di Natale l’epicentro mercantile si spostava a Santa Brigida, con la guizzante fiera al busto di Masaniello. Materiale ottimo per gastronomi, ma anche per cacciatori di “colore locale” a basso prezzo, per autori di canzoni eterne come “ ‘O marenariello” o durate una sola Piedigrotta.
Più ruvido, Cesare Caravaglios nel 1931 tracciò un identikit non manierato del “pisciavinolo”: è scalzo, odora di mare, porta una giubba ed è contento soprattutto quando ruba sul peso. È frenetico nei movimenti e fulmineo nelle trattative sul prezzo, perché è la stessa deperibilità della sua merce a imporgli fretta. Grida: «Tengo argiento int’ ‘a spasella», «Pe’ fa’ la zuppa vove e mazzune», «Alice a quattordice» (soldi al chilo), «Ah! Comme friccica ‘o gamberiello». Un’altra voce classica è dedicata ai natalizi capitoni: «’E vive e ‘e gruosse».
La visione di una carretta con la “mappata” di reti e di ceste, di gerle piene di sardine, spigole, triglie, orate, ai giorni nostri non è una rarità. Ed è quotidiano lo spettacolo antico, biblico, dei pescatori che tirano le reti a Via Caracciolo e subito mettono in vendita il pescato. Il maligno nel gruppo di curiosi vi dirà che quello è pesce congelato ributtato tra le onde per illudere gli ingenui: non è vero. Invece è vero che le prede sono ogni giorno più rare perché il mare di Napoli è stato dissanguato dai “bombaroli” di frodo e inaridito dall’inquinamento. Mimì Rea ci ha lasciato un’immagine folgorante dei pescatori contemporanei: «i mendicati del mare».
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