Quest’estate mi trovavo a Palermo, in giro per il centro, alla ricerca dei tanti tesori di questa particolarissima città.
Una mattina, era la fine giugno, mi trovavo nell’oratorio del Rosario di San Domenico, dove ero andato per vedere alcuni dei famosi stucchi di Giacomo Serpotta e ammirare la famosa pala “La Madonna del Rosario e Sante Siciliane”, di Antoon van Dyck.
Per una più approfondita conoscenza della storia dell’oratorio e delle opere in esso contenute ho utilizzato un’audio-guida.
E proprio mentre ero intento a seguire quello che la voce registrata diceva, sono stato colpito dal modo col quale veniva pronunciato il cognome del pittore fiammingo; dall’audio-guida, infatti, si ascoltava incredibilmente “van daik”.
In quel momento il senso di bellezza, di armonia, suscitato da quella visita è stato inquinato dall’ascolto di quella pronuncia.
Fortunatamente quel disturbo è durato solo un paio di secondi, mentre quella che è rimasta, anche dopo quella visita, è la sensazione, netta, del contrasto che vedo spesso tra la bellezza di alcuni luoghi e la trascuratezza, l’approssimazione, l’ignoranza, che li circonda.
Ma se proprio non si vuole pronunciare “van dik” (ritenendo questa pronuncia troppo “popolare”, mentre invece si vuol dar dimostrazione di “aver studiato”), che almeno si usi l’olandese “van deik”, anziché quella ridicola forma inglese, imitazione approssimativa della pronuncia fiamminga.
Ho voluto raccontare questo piccolo episodio (che mi fa venire in mente “L’aria del continente”, di Nino Martoglio) per mettere in evidenza la ridicola mania, tipica questa sì di una mentalità provinciale, di una forma di sudditanza psicologica (altro che dimostrazione di “aver studiato”), di usare a sproposito (anche quando non ce n’è assolutamente bisogno) termini anglosassoni, illudendosi, così facendo, di dare un certo “tono” a quel che si dice o a quel che si scrive, di sembrare ciò che in realtà non si è.
Non a caso questo virus si è così largamente diffuso in un luogo in cui atteggiarsi, apparire, è tutto.