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Protective Edge: i limiti di un’operazione tattica limitata

Creato il 01 agosto 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

gaza-protective-edge-2014

di Giuseppe Dentice

Con il richiamo dei riservisti da parte di Israele [1], lo scorso 8 luglio è stato dato il via nella Striscia di Gaza all’operazione militare Protective Edge (Margine di Sicurezza). Dopo dieci giorni di raid aerei e di bombardamenti della marina israeliana, il governo e gli Stati Maggiori dell’esercito hanno deciso di avviare un’offensiva terrestre, la prima dal ritiro unilaterale di Tel Aviv dal territorio nel 2005. Dall’8 luglio le vittime stimate fra i Palestinesi sono 1.400 unità e più di 7.500 sarebbero i feriti, mentre sul fronte israeliano si registrano 59 vittime (tra cui 3 civili). Secondo le cifre diffuse dalle Nazioni Unite sarebbero all’incirca 200mila gli sfollati interni. Per entrambe le fazioni si tratta dell’offensiva militare più sanguinosa a Gaza dell’ultimo decennio [2]. Dati impressionanti per un conflitto, il più antico della storia contemporanea, che si arricchisce di un nuovo capitolo e che non sembra far scorgere all’orizzonte una possibile via d’uscita dallo stallo politico, militare e diplomatico nel quale sembra dirigersi.

Il “Margine di Sicurezza” israeliano – Fin dall’inizio l’operazione Protective Edge si è caratterizzata per una duplice azione combinata da parte dell’Israeli Air Force (IAF) e dell’Israeli Navy [3]. Dalla serata del 17 luglio il Gabinetto per la sicurezza israeliana ha ampliato il ventaglio delle proprie operazioni dando ufficialmente il via anche all’azione terrestre. In conferenza stampa il Premier Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Moshe Ya’alon hanno spiegato che “Margine di sicurezza” è nato con uno scopo preciso: «la distruzione dei tunnel che consentono ai terroristi di infiltrarsi in Israele e portare attacchi». Una versione che ha trovato conferma anche nelle parole del portavoce dell’IDF Peter Lerner: «l’obiettivo dell’operazione non è quello di rovesciare il governo di Hamas ma di mettere in sicurezza i confini [israeliani]».

L’offensiva terrestre è partita in simultanea il 17 luglio dai confini a nord, al centro e a sud di Gaza e vede impiegati sul terreno 15-20mila soldati, i quali già da settimane pattugliavano le frontiere della Striscia. Protective Edge si presenta come un’operazione tattica limitata con la quale il governo Netanyahu mira a ridurre il potenziale offensivo delle milizie islamiste nella Striscia e che non ha un orizzonte temporale definito. L’offensiva è diretta principalmente alla distruzione dei tunnel e, almeno per il momento, non sembrerebbe mirata allo stanziamento delle truppe in loco – sebbene queste continuino a presidiare le frontiere aeree, terrestri e marittime della Striscia dal disengagement unilaterale del 2005[4]. La gran parte delle azioni si concentrano lungo le frontiere e i checkpoint controllati da Israele con l’intento di evitare infiltrazioni di cellule armate nell’entroterra israeliano. Il controllo israeliano di una fascia di sicurezza ha permesso all’IDF di neutralizzare un commando di Hamas infiltratosi attraverso uno dei tunnel che dall’enclave gazawi si estende fin dentro lo Stato ebraico [5].

Protective Edge: nel dettaglio - Fonte: Haaretz, dati al 27-07-14 (clicca sull'immagine per ingrandire)
Protective Edge: nel dettaglio – Fonte: Haaretz, dati al 27-07-14 (clicca sull’immagine per ingrandire)

I 36 tunnel [6] finora scoperti da Shin Bet ed esercito, di cui 21 già distrutti, sono stati costruiti in questi anni da Hamas grazie alle importanti donazioni giunte da tutto il mondo. Il costo di ciascun tunnel si aggira intorno al milione di dollari. Le uscite di alcuni di questi tunnel giungono molto vicini alla Green Line del 1967. I più profondi raggiungono anche i 30 metri di profondità e permettono anche il passaggio di automobili e penetrano nel territorio israeliano per diversi chilometri. I più piccoli sono lunghi circa 250 metri, larghi e alti un metro e mezzo. Questi tunnel, come nel caso di Rafah e l’Egitto, sono usati dalle cellule islamiste per coniugare traffici civili insieme con quelli bellici e in generale illegali. Il caso più eclatante riguardo a questo tipo di infrastrutture che collegano Gaza a Israele risale al 13 ottobre 2013 quando ad Ein HaShelosha, nei pressi della frontiera con Gaza e all’altezza della città palestinese di Dir el-Balaj, era stato scoperto un tunnel costruito «per attività terroristiche contro civili israeliani e personale militare dentro Israele».

La distruzione dei tunnel che collegano Gaza con l’entroterra israeliano è giustificata dall’IDF con la possibilità di stabilire un’ampia buffer zone che parte dai confini interni della Striscia per scendere in profondità di almeno 3 Km. In questo modo l’esercito israeliano può controllare un’importante zona militare cuscinetto di rilevanza strategica che impedirebbe alle cellule islamiste di entrare in contatto con l’esterno. Secondo ricostruzioni di stampa fatte da anonimi militari israeliani, Tel Aviv starebbe riducendo metodicamente le dimensioni della Striscia di Gaza del 40% [7]. È bene ricordare che in un territorio di 40 Km di lunghezza per 12 di larghezza vivono 1,8 milioni di abitanti, molti dei quali profughi dei precedenti conflitti israelo-palestinesi.

Per quanto il bilancio per lo Stato Ebraico possa apparire positivo, Protective Edge denota tutti i limiti dell’azione militare israeliana: innanzitutto per l’assenza di strategia operativa, che sia essa di medio o di lungo periodo, alla quale si associa; in secondo luogo, un’assoluta mancanza di temporalità dell’offensiva. Una conferma di ciò si evince proprio dall’intervento in diretta televisiva del Premier lo scorso 28 luglio. Netanyahu ha affermato che Israele non fermerà Protective Edge «finché non avrà neutralizzato tutti i tunnel del terrore a Gaza», aggiungendo che si assisterà ad un’estensione delle operazioni sul campo e che questa nuova campagna militare richiederà «un impegno prolungato» [8]. È evidente, quindi, che i bombardamenti israeliani non sono stati in grado finora di ridurre le capacità operative di Hamas proprio perché i target (depositi missilistici e di armi) sono situati a grandi profondità nel sottosuolo. Allo stesso tempo, questi stessi depositi sono collocati sotto scuole, abitazioni o infrastrutture civili. Un attacco aereo o anche terrestre, per quanto possa essere mirato e preciso, ha comunque un’efficacia molto limitata dati l’alto potenziale di perdite civili e l’importante densità abitativa del territorio [9]. I casi più clamorosi sono gli attacchi israeliani condotti sulle scuole dell’UNRWA a Gaza City dove in due distinte azioni sono morte circa 50 persone. A fronte dunque di un mezzo di pressione o comunque di uno strumento di deterrenza considerevole, gli effetti raggiunti o che si potranno cogliere sono limitati e tuttavia non risolutivi del problema di fondo, ossia una riproposizione del conflitto tra due/tre anni come già avvenuto con Cast Lead (2008-09) e Pillar of Defense (2012). In tutti questi casi Tsahal è sì riuscita a ridurre la capacità militare di Hamas, ma non ha raggiunto alcun risultato nel lungo periodo di stabilizzazione del territorio.

Tregua o escalation? – «Nessuna pressione internazionale ci impedirà di operare con piena forza contro un’organizzazione terroristica che invoca la nostra distruzione», aveva detto Netanyahu pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione militare. Parole indicative e che esprimono in pieno le difficoltà e l’impotenza della diplomazia internazionale. Nonostante si rincorrano voci di accordi circa il cessate il fuoco e siano in corso altri tentativi di tregua, mediati da USA, ONU ed Egitto, gli sforzi sinora compiuti si stanno rivelando totalmente inconcludenti a causa proprio dell’incapacità e/o dell’impossibilità della diplomazia internazionale di riuscire a esprimere una qualche forza di pressione politica sulle parti in causa e di presentare un mediatore super partes credibile. È il caso di Abdel Fattah al-Sisi che dalla deposizione del Presidente islamista Mohammed Mursi, artefice della tregua del 2012, viene ritenuto un mediatore poco affidabile soprattutto da Turchia e Qatar – al momento gli unici sponsor politici ed economici di Hamas, dopo le defezioni di Siria e Iran – per la sua politica fortemente assertiva e repressiva della Fratellanza Musulmana in Egitto e del movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza e attivo nel Sinai.

Alle frustrazioni diplomatiche si sommano, inoltre, i timori regionali che una crisi dal carattere locale possa diventare nel breve-medio periodo una nuova fonte di tensione macro-regionale che vada ad aggiungersi agli altri fronti aperti come la Libia, la Siria e l’Iraq. Tutte queste crisi nate con un carattere prettamente interno si sono tramutate in una sorta di insorgenza islamista contro il potere centrale alimentate più o meno direttamente dalle ambizioni regionali dei singoli attori esterni coinvolti.

A rendere ancor più incandescente lo scenario potrebbe influire non solo l’atteggiamento oltranzista del variegato fronte palestinese ma anche e soprattutto un eguale approccio sul versante israeliano, nel quale emerge con sempre maggiore evidenza la volontà della dirigenza israeliana di minare fin dalle fondamenta qualsiasi forma di riconciliazione intra-palestinese. In questo senso rappresentano un limite alla distensione anche le invettive intrise di messianesimo e di nazionalismo di Naftali Bennett e di Avigdor Liebermann, rispettivamente Ministro delle Finanze e degli Esteri dell’attale esecutivo e principali riferimenti politici di un’importante quota dell’elettorato israeliano, ossia i coloni ebraici e gli haredim, gli ebrei ultra-ortodossi. Quest’ultimi, fortemente radicalizzati e demograficamente in grande ascesa rispetto al resto della popolazione, sono un importante elemento di conflittualità che appartiene non solo alla società israeliana ma anche alla stessa classe politica dove la distanza tra laici e ultra-ortodossi si sta facendo sempre più profonda. Il Likud, lo storico partito che fu di Jabotinsky, Begin, Shamir e Sharon ha assunto negli anni un orientamento sempre più spostato a destra, trasformandosi così da un movimento tradizionalmente laico, liberale, nazionalista e conservatore ad uno oscillante tra le posizioni nazionaliste di Bennett e quelle esasperate di Lieberman proprio per intercettare i desiderata e le istanze di queste forze radicali. A rappresentarli nel Likud esiste infatti una corrente interna nota come “leadership ebraica” che accoglie coloni e deputati di estrema destra come Moshe Zalman Feiglin, Zeev Elkin e Danny Danon. Questa divisione interna al partito rappresenta a buon titolo la spaccatura esistente nella società israeliana dove, da un lato, vi è un ceto medio-borghese laico e laborioso e, dall’altro, un mondo come quello degli haredim che vive di simbolismo messianico e di un’identità dello Stato fondata unicamente sull’ebraismo e che non riconosce la creazione di uno Stato palestinese all’interno dell’Eretz Yisrael Hashlemah (la dottrina sionista de “Il Grande Israele”).

Saltata anche la tregua umanitaria di 72 ore, al momento vige sostanzialmente uno stallo diplomatico e senza un segnale distensivo di almeno una delle parti vi è il rischio concreto di giungere entro breve tempo ad una nuova escalation militare fatta di ritorsioni e di rappresaglie reciproche che potrebbero favorire un ventaglio abbastanza verosimile di situazioni: dall’insorgere di una Terza Intifada in Cisgiordania fino al ritorno del terrorismo palestinese degli anni Novanta e primi Duemila, dalla proliferazione dei fenomeni jihadisti su scala regionale all’apertura di altri fronti “caldi” lungo le frontiere israeliane. Infatti, dopo il Sinai egiziano e il mai normalizzato confine siro-libanese, altri pericoli potrebbero giungere dalla Giordania e dalla penetrazione jihadista dello Stato Islamico del califfo al-Baghdadi. I segnali in questa direzione non mancano e il protrarsi dell’offensiva militare certamente non favorisce la distensione.

È difficile immaginare cosa potrà accadere nell’immediato e tanto più intuire se una qualche forma di intermediazione potrà essere foriera di un risultato positivo. L’unica certezza che da questa situazione né Israele né Hamas potranno più tornare indietro. La speranza è di non assistere a un nuovo ciclo, perfino più cruento, della storia infinita fra i due eterni nemici.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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[1] Al momento i riservisti richiamati in servizio dal Ministero della Difesa sono 86mila e tra questi non vengono considerati gli uomini già operativi sul campo a Gaza. IDF to enlist 16,000 more reservists as Israel presses on with Gaza operation, in “The Jerusalem Post, 07/31/2014.

[2] Nelle precedenti operazioni Cast Lead (2008-09) e Pillar of Defense (2012) i morti israeliani erano stati in totale 23 mentre quelli palestinesi erano giunti a circa un migliaio.

[3] Un ruolo offensivo attivo che non in passato non aveva avuto durante Cast Lead del 2008 e Pillar of Defense del 2012

[4] Come sostenuto dalla giurista internazionalista Elizabeth Samson l’enclave di Gaza si può definire sotto “occupazione mista”, ossia una situazione derivante dal fatto che effettivamente Israele non esercita alcuna forma di controllo all’interno della Striscia dalla quale è assente dal 2005 ma che attraverso il controllo delle frontiere riesce comunque ad esercitare una forma di occupazione militare. Una situazione che si è poi aggravata dopo l’embargo imposto dal governo israeliano a Gaza all’indomani della vittoria elettorale di Hamas nella Striscia del 2006 e, soprattutto, dopo l’espulsione di Fatah dal territorio nel 2007 a seguito della cosiddetta “Battaglia di Gaza”. Per approfondire gli argomenti si suggeriscono le seguenti letture: Elizabeth Samson, Is Gaza Occupied? Redefining the Status of Gaza Under International Law, in “American University International Law Review”, Vol. 25, No. 915, 2010.

È altrettanto importante precisare che de facto Israele controlla la Striscia di Gaza dalla fine della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando l’Egitto sconfitto perse il suo “protettorato” gazawi che gestiva dal 1948. Per approfondire su La Guerra dei Sei Giorni: Michael OREN, Six Days of War: June 1967 and the Making of the Modern Middle East. Presidio Press, 2002; Benny MORRIS & Ian BLACK, Mossad. Le guerre segrete di Israele, BUR Biblioteca universitaria Rizzoli, 2004.

[5] Cinque soldati israeliani e un militante palestinese sono stati uccisi nei pressi del kibbutz Nahal Oz, al confine con la Striscia di Gaza, nella regione di Eshkol, nel Negev occidentale. Sebbene il bollettino dell’IDF indichi sei vittime, Hamas, nel rivendicare l’operazione, ha invocato l’uccisione di dieci soldati israeliani. Moshe COHEN, Five Soldiers Killed in and Near Gaza, in “Arutz Sheva”, 07/28/2014.

[6] Per approfondire si legga Gaza ‘mega tunnel’ uncovered near border kibbutz, in “Israel al-Hayoum”, October 13, 2013; Shlomi ELDAR, Gaza tunnels take IDF by surprise, in “Al-Monitor”, July 20, 2014.

[7] NightWatch, July 29, 2014.

[8] Anna HIATT, Netanyahu: We’re prepared for an extended operation in Gaza, in “The Jerusalem Post”, 07/28/2014.

[9] La densità abitativa della Striscia di Gaza è di 5.000 abitanti per Km2 a fronte di una popolazione totale che raggiunge circa il milione e 800.000 persone. Gaza è seconda al mondo solo dopo Singapore e Monaco come territori per densità di popolazione.

Photo credits: Ilia Yefimovich

N.d.R: L’articolo è aggiornato alle 15:13 dell’1 agosto 2014

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