10 febbraio 2014 • Recensioni Film, Vetrina Cinema •
Summary:
“IO è un altro”, scriveva Rimbaud. Potrebbe essere il motto di Will Wilder, il protagonista di Vijay, il mio amico indiano. Will è un attore tedesco trapiantato a New York, un uomo che da anni interpreta lo stesso, frustrante ruolo, e per di più coperto da un costume, il Coniglietto Passaguai, il protagonista di un programma per bambini. Quando la sua macchina rubata viene coinvolta in un incidente, Will viene creduto morto. Così decide di stare al gioco, si finge morto e realizza un suo vecchio desiderio: quello di andare al suo funerale. Per farlo, si trucca da indiano e diventa così Vijay Singh, un cortese Sikh, con tanto di turbante. Wijay in questo modo scopre cosa pensava la gente di Will. Non piaceva molto alle persone. Vijay invece piace a tutti. Soprattutto alla moglie di Will, con cui la passione ormai si era persa. E ora, grazie a Vijay, sembra riaccendersi.
“IO è un altro” significa non essere ciò che la famiglia e la società si aspettano. È il rifiuto del già detto e del già visto. Vijay è l’occasione per Will per non essere più quello che a cui tutti erano abituati, per tornare ad essere quello che era un tempo, e che quotidianità, abitudine, stanchezza e frustrazione hanno sbiadito. Essere forse quello che si è sempre voluto essere e non si ha mai avuto l’occasione di diventare. Ma se vostra moglie si innamorasse, e facesse l’amore con il vostro altro Io, come vi sentireste? Gratificati? O traditi? Cosa fareste? Le direste la verità o continuereste a essere il vostro alter ego, perché in questo modo la vita va meglio?
A tutte queste domande cerca di rispondere Sam Garbarski, il regista di Irina Palm, in Vijay, il mio amico indiano. Il suo film “pirandelliano” ha davvero una grande idea, uno spunto eccezionale, una storia che all’inizio incuriosisce. Proprio come l’idea che era il punto di partenza di Irina Palm. Ma, proprio come quel film, dopo lo spunto iniziale anche Vijay, il mio amico indiano, procede in maniere un po’ prevedibile e scontata. Forse, il problema è anche un po’ nostro: siamo abituati alle commedie americane, a film che, partendo da una grande idea, sono forti di una sceneggiatura che a una bella storia aggiunge gag, ritmo, sorprese. Garbarski invece si accontenta della sua idea e sceglie di navigare su una rotta sicura e tranquilla.
Lo stesso Moritz Bleibtreu (è lui Will/Vijay), attore eccezionale sia in chiave drammatica che quando lavora sui tempi comici (vedere per credere Soul Kitchen), recita un po’ trattenuto, e sembra non essere sfruttato appieno. Garbarski ovviamente non intendeva girare un film comico, ma qualcosa dalle sfumature più sottili. Un film “malincomico”, si potrebbe dire, rubando una definizione coniata alcuni anni fa per un certo tipo di cinema italiano, e che ben si addice al lavoro di Garbarski. Anche se siamo a New York, il suo cinema rimane di tipo europeo. Il suo protagonista si chiama William Wilder, un chiaro omaggio a Billy Wilder e a tutti gli artisti tedeschi che partirono per l’America negli anni Trenta e Quaranta. A cui Garbarski, idealmente e affettivamente, si sente vicino.
Di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
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