di Francesca Palermo
Il caso dei fucilieri di marina italiani che verosimilmente in acque internazionali hanno ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati è frutto di quell’immaginario occidentale che acriticamente si ostina a dipingere una Potenza globale come il Paese della spiritualità, pacifico e tollerante. All’origine del “caso marò” c’è un peccato – prima che un errore diplomatico – tutto occidentale. I lupi sono stati scambiati per agnelli.
Dall’errore originario – l’aver consentito (a un anno dall’incidente non è dato sapere da chi fu dato l’ordine) alla nave Enrica Lexie di entrare nel porto di Kochi su richiesta delle autorità indiane nonostante la nave si trovasse in acque internazionali – si è sviluppato un vero caso diplomatico. Smentite, cambiamenti di rotta, rassicurazioni instabili hanno caratterizzato e caratterizzano l’atteggiamento degli organi di governo italiani. Da ultimo la dichiarazione ufficiale del Ministro Terzi di non riconsegnare all’India i Marò alla scadenza del permesso elettorale, posizione in pochi giorni smentita di fatto dalla riconsegna dei fucilieri di marina alle autorità indiane.
L’ennesimo cambio di rotta del governo Italiano sul caso marò alimenta la sensazione di fallimento della diplomazia italiana dato dallo sgretolarsi della credibilità internazionale dello Stato sovrano che di per sé avrebbe potuto da subito legittimare l’Italia nelle relazioni con una potenza che con l’inganno – secondo quanto affermato dai Ministri della Difesa e degli Esteri – ha attratto la nave italiana in acque indiane creando le basi su cui rivendicare a gran voce la propria giurisdizione sui fucilieri italiani.
Un cambio di rotta che, non dimentichiamo, nelle ultime ore ha d’altra parte coperto di ridicolo l’Italia sotto il profilo diplomatico, indebolendola sempre più agli occhi dell’interlocutore indiano, ed ha contestualmente esposto l’operato degli organi di governo alle critiche dell’opinione pubblica sconcertata dalle dichiarazioni ufficiali secondo le quali la (ri)consegna di due cittadini italiani ad uno Stato in cui vige la pena di morte sarebbe conseguenza della ricevuta “assicurazione” che tale pena non sarà mai applicata ai due militari italiani.
Da quanto scritto è ben possibile individuare i punti cardinali dell’azione polito-diplomatica italiana:
- Acritica sottovalutazione della controparte;
- Debolezza sul piano delle relazioni diplomatiche;
- Cedevolezza dell’argomentazione giuridica;
- Cortocircuito politico.
Alla acritica (sotto)valutazione dell’India e del suo ruolo di interlocutore forte nelle relazioni internazionali si è aggiunta, come già emerso, l’evidente debolezza mostrata dall’Italia nella gestione della vicenda. Si pensi solo alla dichiarazione dello Stato italiano tendente a negare qualsivoglia responsabilità – subito smentita – dalla volontà di accordare un indennizzo alle famiglie dei due pescatori uccisi e alla richiesta rivolta a Russia e Gran Bretagna di intercedere presso le autorità indiane.
Sotto il profilo prettamente giuridico deve segnalarsi innanzitutto il debole richiamo operato dall’Italia al principio dell’immunità funzionale dei militari quale norma consuetudinaria di diritto internazionale.
La pretesa operatività della regola dell’immunità funzionale, in virtù della quale il militare (organo dello Stato) che agisce nell’esercizio delle proprie funzioni fuori dal territorio dello Stato di appartenenza non risponde in prima persona dei fatti compiuti che, invece, sono ascrivibili allo Stato di appartenenza, avrebbe – secondo l’Italia – potuto risolvere la questione marò alla radice sottraendoli alla giurisdizione (penale) indiana. Peccato che nell’invocare siffatta consuetudine lo Stato abbia dimenticato di verificare la prassi (elemento oggettivo della consuetudine è la diuturnitas) internazionale. Se lo avesse fatto si sarebbe accorto che a partire dal secondo conflitto mondiale la prassi non riconosce l’immunità funzionale ai militari che agiscono fuori dallo Stato di appartenenza salvo la previsione della stessa in accordi di natura pattizia (cfr. caso Cermis).
Questo cedevole argomento giuridico non ha evidentemente trovato accoglimento. Come a tutti noto, l’India ha dall’inizio negato l’immunità funzionale ai militari italiani affermando di contro la propria giurisdizione.
Con il passare del tempo e con il susseguirsi degli eventi (in particolare il rientro in Italia dei marò a seguito di un permesso ottenuto prima per le festività natalizie e poi per motivi elettorali) l’attenzione degli esperti si è spostata su una pronuncia della Corte Costituzionale del 1996, la quale ha ritenuto contraria a Costituzione l’estradizione di un cittadino italiano in Paesi in cui vige la pena di morte capace di minacciare il diritto alla vita (art. 2 Cost.). Nel caso Italia-India tale argomento costituzionalmente solido non è stato sufficientemente speso ai fini della ricerca di una soluzione condivisa della vicenda. Né è stato unilateralmente applicato.
Invero, ad una prima dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri italiano di non restituire i marò all’India allo scadere del permesso elettorale, è seguito in pochi giorni (dopo pressioni da parte dell’India che ha imposto – in violazione della Convenzione di Vienna – all’Ambasciatore italiano Mancini il divieto di espatrio “sino a nuovo ordine”) il dietrofront dell’Italia con conseguente rientro dei militari italiani in India. Questo ultimo cambiamento di rotta è stato giustificato agli occhi dell’opinione pubblica con la diffusione da parte del governo italiano della notizia relativa alla esistenza di “assicurazioni” ricevute dall’India sulla non applicazione della pena di morte ai fucilieri di marina. Assicurazione non suffragata da riscontri obiettivi e smentita – in modo abbastanza netto – dalle autorità indiane.
Su queste presunte assicurazioni dell’India, preme mettere in luce che il Governo italiano avrebbe potuto rifiutare di restituire i marò trovando argomento nella sentenza su citata nella quale la Consulta ha evidenziato che il divieto di pena di morte sancito dalla Costituzione e i valori ad esso sottostanti impongono una garanzia assoluta del diritto alla vita. Ciò rende costituzionalmente inammissibile il subordinare l’estradizione di un cittadino italiano verso un Paese in cui vige la pena di morte sulla base di “sufficienti assicurazioni” ricevute da quest’ultimo.
Se si sostenesse o si agisse in senso contrario, un diritto indisponibile – quale è il diritto alla vita – verrebbe assoggettato alla “parola di uno Stato terzo” ritenuta affidabile all’esito di una valutazione (non poco discrezionale e contingente) del governo (dello Stato italiano). Questo, pare, sia successo il 20 marzo scorso.
Ogni analisi dei profili della vicenda, in particolare di quelli giuridici, resta suscettibile di correzione stante l’opacità degli indirizzi politici e della linea diplomatica seguiti nella gestione della controversia con l’India.
Il cortocircuito politico è culminato con le dimissioni “in diretta” del Ministro degli Esteri Terzi nell’aula di Montecitorio nel giorno in cui era chiamato per riferire sulla decisione del Governo di rimandare in India i fucilieri di marina.
Di fronte a uno scenario simile il profilo giuridico viene adombrato da questioni di carattere più strettamente politico inserite in un quadro di crisi strutturale della politica italiana.
Quanto accaduto nelle ultime settimane ha ridato voce al caso. Mentre si scrive – infatti – piovono sulla questione marò la decisione della Corte Suprema indiana di revocare il divieto di espatrio precedentemente imposto all’Ambasciatore Mancini e la notizia di prossime decisioni governative per la costituzione di un Tribunale ad hoc per giudicare i fucilieri. Nessuna conferma, invece, sulla richiesta da parte del governo indiano di un supplemento di indagini affidato alla NIA (Agenzia Nazionale di Investigazione). L’Italia – in tutto questo – assiste, muta, a quello che ha tutto il carattere di un “monologo”.
Sullo sfondo solo la vicenda umana: due cittadini italiani – prima ancora che militari – consegnati a un Paese che applica la pena di morte.
* Francesca Palermo è Dottoressa in Giurisprudenza (Università di Siena), abilitata all’Esercizio della Professione forense.