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Obiezione di coscienza: il ruolo degli ospedali

Creato il 07 marzo 2012 da Animabella
Pubblico qui di seguito il testo dell'intervento che ho svolto al dibattito “Obiezione di coscienza e diritti negati. Quando l'aborto diventa un incubo”, tenutosi alla Casa internazionale delle donne lo scorso 27 febbraio con Chiara Lalli, autrice di “C'è chi dice no”, il Saggiatore, in un incontro moderato da Elena Ribet, giornalista di Noidonne.
Qui è possibile scaricare il file dell'audio integrale.
Vi ricordo poi l'appuntamento di giovedì 8 marzo, a Roma presso La Villetta, via Passino, 26, alle ore 17 con la proiezione del film di Alina Marazzi “Vogliamo anche le rose”, a cui seguirà un dibattito con: Cinzia Sciuto, redattrice di MicroMega, Ilaria Fraioli, montatrice del film, Marina d'Ortenzio, resp. Politiche di genere di Sel Roma area metropolitana
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La questione dell'obiezione di coscienza e dell'aborto si può affrontare da due punti di vista.
Il primo è quello dello scontro tra due diritti – quello all’interruzione volontaria di gravidanza delle donne e quello all’obiezione di coscienza del personale sanitario. Da questo punto di vista, ci troviamo di fronte due soggetti, entrambi titolari di diritti soggettivi riconosciuti dalla legge.
Prima della legge 194 l'aborto era addirittura un reato, per cui è comprensibile che nell'approvare quella legge si tenesse conto del fatto che i medici che erano in servizio in quel momento avevano iniziato la loro carriera quando l'aborto era illegale. Questa legge interveniva modificando una parte della loro professione, ed era quindi comprensibile consentire ai medici allora in servizio di astenersi da quello che fino a un giorno prima era un reato.
La 194 avrebbe dovuto prevedere questa possibilità, però, come una clausola transitoria, che non avrebbe dovuto avere effetto sui futuri medici: dopo il 22 maggio del 1978 chi ha scelto e continua a scegliere di specializzarsi in ginecologia o di fare l'ostetrica sa che tra le sue mansioni ci sarà anche l'ivg e, se la ritiene del tutto inconciliabile con la propria coscienza, può liberamente scegliere un altro percorso professionale.
In una società altamente complessa e specializzata come è la nostra spesso l’esercizio di un diritto esige una prestazione tecnica da parte di un professionista specializzato, per cui sempre più spesso si pone il problema: se per esercitare un mio diritto – sancito dalla legge – io ho bisogno della prestazione tecnica di un professionista, quest’ultimo può appellarsi a ragioni di coscienza negandomi la prestazione e, con ciò, impedendomi di esercitare il mio diritto?
Cosa succederebbe se si consentisse ad ogni professionista di decidere se fornire o non fornire una prestazione sulla base delle sue personalissime convinzioni di coscienza? Può un farmacista convinto che le medicine tradizionali siano dannose, rifiutarsi di vendere un antibiotico regolarmente prescritto? Può un medico Testimone di Geova astenersi dall'effettuare una trasfusione di sangue perché la sua coscienza glielo vieta?
Se quella che va tutelata è la coscienza di ciascuno – e non questa o quella particolare posizione ideologica, religiosa, filosofica eccetera – allora nessuno può sindacare sulle scelte “di coscienza” di qualcun altro. E se si garantisce al medico cattolico il diritto di appellarsi alla propria coscienza per astenersi dall'effettuare un aborto, non si vede perché non si debba garantire analogo diritto al medico Testimone di Geova di astenersi dall'effettuare una trasfusione di sangue.
Quando non si ha il coraggio di prendere la laicità sul serio, si creano tutte queste aporie: uno Stato confessionale, infatti, ha buon gioco a individuare le coscienze che meritano di essere rispettate e garantite ed è perfettamente legittimato a “discriminare” le altre. Uno Stato formalmente laico – come è il nostro, tanto più che dopo la revisione del Concordato del 1984 la religione cattolica non è più religione di Stato – non può espressamente riconoscere ad un fede, e ai suoi corollari etici, maggiore legittimità di altre. E invece riconoscendo il diritto all'obiezione di coscienza sull'aborto e non su altri aspetti della professione medica, crea delle discriminazioni di fatto difficilmente giustificabili (come tutte le altre condizioni di privilegio di cui gode la fede cattolica, a partire dall'insegnamento della religione cattolica nelle scuole). Prendere la laicità sul serio significherebbe erigere dei baluardi difensivi contro i fondamentalismi, da qualunque parte questi provengano.
L'obiezione di coscienza andrebbe quindi oggi semplicemente abolita. Ma se pretendiamo di risolvere la questione – che è questione drammatica, che passa per la vita e i corpi delle donne – su questo piano probabilmente non arriveremo mai ad una soluzione soddisfacente, almeno fino a che l'egemonia culturale in questo paese non faccia diventare la laicità il principio ovvio e da tutti condiviso per la gestione dei “conflitti etici”.
Se si affronta però la questione da un altro punto di vista, la soluzione del problema è molto più semplice. Da questo secondo punto di vista, il problema si sposta dallo “scontro” tra due soggetti al rapporto tra la donna che chiede di esercitare un diritto sancito dalla legge e le istituzioni.
Se infatti, la 194 concede al personale sanitario la possibilità di rifiutarsi di praticare aborti per ragioni di coscienza, la stessa legge, perisno nello nello stesso articolo 9, che è quello che regola l'obiezione di coscienza, sancisce:Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale.” Quindi trasferimenti coatti e concorsi ad hoc, come suggerito anche da un giurista del livello di Stefano Rodotà. Niente più scuse per gli ospedali: se non garantiscono il servizio sono fuori legge.

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