Magazine Basket

Summer in RIP City: orizzonti di gloria?

Creato il 10 luglio 2014 da Basketcaffe @basketcaffe

Sam Bowie e Rasheed Wallace, Brandon Roy e Darius Miles, Greg Oden e Arvydas Sabonis: accostamenti imprudenti? Paragoni blasfemi? Quando la sfera di giudizio si limita alla religione del parquet, poche metafore cestistiche risultano più ardite, ma se si allarga il campo all’intero sistema di Portland si nota che questi confronti rappresentano le facce opposte di un’unica medaglia: incarnano il fascino dell’incompiuto, mostrano gli splendidi infiniti artistici della Pietà Rondanini, suggeriscono la grandezza attraverso l’ignoto.

Quando i tifosi di Portland osservano i simboli della loro storia recente, però, non pensano a Michelangelo e non si emozionano al cospetto della sua geniale sensibilità scultorea: il basket è una forma d’arte che non lascia spazio all’immaginazione; i suoi avanguardisti non contemplano l’indefinito poiché adorano i percorsi completi e venerano i traguardi raggiunti. Vivono per gli Anelli, non per i marmi ruvidi della fantasia. Le masse li ammirano, li seguono, assecondano il loro bulimico desiderio di vincere; ricordano i loro beniamini quando entrano negli Albi d’Oro o quando sanno regalare alle loro pupille immagini meravigliose, ma dimenticano le schiere informi degli alfieri sconfitti e dei lottatori anonimi, non hanno sempre pietà per i brutti colpi della sorte, non ricordano con piacere le squadre forti che sciupano i loro talenti e non si affermano. Dall’estate del 1983 il cuore cestistico di Portland, la città delle rose, ha sempre fatto i conti con le spine della sfortuna e con i lati più controversi della cultura afroamericana: Sam Bowie avrebbe dovuto spaccare la Lega ed è uscito dalla prima curva della sua carriera con un ginocchio rotto e un sogno spezzato; ‘Sheed ha mostrato tutto il suo talento a RIP City ed è fuggito a Detroit per non annegare nel marasma dei Jail Blazers.

Darius Miles ha lasciato il suo atletismo nei gangli più oscuri dello spogliatoio più torrido d’America; Brandon Roy ha riempito l’atmosfera di bagliori, ma è rimasto prigioniero dell’assenza di cartilagine. Il Principe del Baltico ha incantato l’NBA, ma se avesse avuto i tendini in ordine avrebbe sfondato le porte della Leggenda; Greg Oden ha stregato tutti gli scout, ma la struttura fragile del suo scheletro non ha retto il peso del corpo più ambito del nuovo millennio. Anime perdute e gemme sfortunate, stelle che hanno brillato altrove e meteore frenate dai loro stessi atomi, parabole stoppate e medaglie incompiute. Questo bagaglio di sventure ha soffocato il Moda Center fino all’autunno del 2013, quando una nuova improbabile accoppiata ha spazzato via lo scetticismo e ha riacceso la passione della città più fine dell’Ovest; Damian Lillard e LaMarcus Aldridge hanno trasformato i dubbi degli addetti ai lavori in benzina e hanno caricato l’orgoglio dei loro compagni.

Il giovane playmaker di Oakland ha trasmesso ai muscoli la sua voglia di arrivare e al cuore la sua devozione per il gioco; la sua stagione da sophomore è diventata un capolavoro di energia e freddezza: buzzer beaters e penetrazioni folgoranti, entusiasmo e passione, giocate vincenti e collaborazioni con il lungo più tecnico e leggiadro dell’NBA. Aldridge ha aggredito la Lega con una determinazione che pochissimi addetti ai lavori gli riconoscevano: il suo fade away jump shot ha dato lavoro agli ufficiali di campo e ai fotografi, i suoi progressi nella lettura del gioco hanno stupito gli scettici. LaMarcus ha sentito la maglia dei Blazers come un pezzo della sua identità cestistica e ha lasciato che il sudore la bagnasse di talento; quando Wes Matthews e Nicolas Batum hanno visto che la loro stella si immergeva nella lotta, hanno dato fuoco alle polveri e hanno fatto decollare la santabarbara del Moda Center: il primo ha crivellato di triple le retine di tutta America, il secondo ha alternato le conclusioni pesanti alle penetrazioni esplosive che le sue gambe multietniche hanno graffiato sui parquet.

Robin Lopez ha aggiunto il pezzo finale al puzzle più divertente dell’inverno: la sua chioma fluente e i suoi muscoli possenti hanno fatto dimenticare alla famiglia e agli addetti ai lavori non brooklynesi l’infortunio del fratello Brook con la determinazione che anima gli eterni underdog. All’armonia balistica di coach Terry Stotts mancava solo un tassello: la panchina. L’infortunio al piede che ha fermato CJ McCollum ha tolto ai Blazers un importante cambio in cabina di regia e ha costretto agli straordinari Mo Williams: l’ex-scudiero di LeBron James ha rivissuto i fasti di Cleveland e ha contribuito a mantenere Portland nella griglia dei Playoffs, ma è arrivato pieno di acciacchi all’appuntamento con la post season.

La furia di Aldridge e il coraggio di Lillard hanno gettato il cuore di RIP City oltre l’ostacolo-Rockets, ma gli Spurs non hanno avuto pietà dei giovani Blazers; la voglia di Will Barton e i segni di vita di Thomas Robinson non hanno invertito la tendenza che ha visto scendere vertiginosamente il rendimento statistico della panchina di Stotts. La sfida impari con San Antonio ha dimostrato che, se Portland vuole ambire ai piani più alti della Lega, ha bisogno di inserire almeno un paio di elementi di livello; la conferma dell’unrestricted free agent Mo Williams sarà tanto importante quanto difficile poiché, a 31 anni, la frizzante guardia vuole sfruttare la sua reputazione di micro-wave scorer per calcare un palcoscenico importante.

Il Moda Center si mostrerà all’altezza di Damian Lillard e LaMarcus Aldridge? La sola firma del calante Chris Kaman non basta: il lungo di passaporto tedesco dovrà prepararsi a uscire dalla panchina per allungare la rotazione di Stotts, soddisfare le aspettative della piazza e della dirigenza e garantirsi il secondo anno del suo contratto. Se qualche altro giocatore di ruolo crederà nel progetto dei Blazers e accetterà un trasferimento meno lucrativo o glamour rispetto ai grandi mercati d’America, RIP City potrà farsi sentire anche nella seconda parte del mese di maggio; se il suo pino resterà cortissimo, i suoi tifosi aggiungeranno i volti di Damian e LaMarcus all’elenco delle loro splendide incompiute.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :